Silvia Ronchey

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L'ultima immagine

2021

James Hillmann e Silvia Ronchey

Rizzoli

Cover L'ultima immagine

Questo libro postumo racchiude l’estremo pensiero di James Hillman. Non è solo la summa e l’ultimo approdo della riflessione sull’immagine che fin dall’inizio sostanzia la sua idea di anima e tutta la sua psicologia. È anche il testamento, etico e politico, che uno dei massimi pensatori del Novecento ha voluto strenuamente concludere sul letto di morte, restando pensante sino alla soglia finale dell’intelletto, dell’introspezione, della biologia stessa. Vi ha depositato l’ultima immagine, appunto, di sé e del suo sistema psicologico e filosofico. Fin dal pensiero del suo maestro Jung — ma anche del platonismo antico e rinascimentale o dell’islam sufi di Corbin — l’immagine è la materia di cui è fatta l’anima individuale. È allora proprio curando il nostro modo di guardare un’immagine che Hillman ci consegna una nuova terapia dei mali che oggi sempre più affliggono l’anima collettiva. Una Via Verde, immanente alla psiche, per salvare la Terra dalla catastrofe ecologica. Un ritorno alla “Grecia psichica”, al suo principio di laicità, di “inappartenenza”, di tolleranza, contro ogni fondamentalismo. Una riscoperta del “genio femminile”, l’importanza del nuovo e antico potere della donna, del suo ruolo nella composizione dei conflitti psichici, e quindi politici, dinanzi alla “caduta” della civiltà occidentale e alla crisi endemica delle sue economie. È nel settembre 2008, lo stesso mese e anno del crollo di Wall Street, che si svolge il “primo tempo” di questo dialogo con Silvia Ronchey, ispirato dalle immagini dei mosaici di Ravenna. Il suo “secondo tempo”, consumato in punto di morte nell’ottobre 2011, esattamente dieci anni fa, affida all’umanità del terzo millennio un insegnamento reso con la tenacia e la determinazione di un moderno Socrate, a testimoniare quella verità che si scorge ed esprime solo imparando a fermare lo sguardo, per cercare dentro ogni immagine l’ultima immagine.

 

«Come posso io, mentre sto morendo, parlare di immagini, o dell’immagine,o di una immagine come rivelazione di verità? che cosa sanno le immagini? che cosa non sanno? perché vengono a noi?»

 

Il segreto dell’immagine, una nuova psicologia per curare la nostra anima e quella del mondo, la sfida del pensiero al dolore e alla morte. Il testamento di James Hillman nel suo rivoluzionario libro postumo.


Altro su questo volume:

Audio e video (6)

  • 2022 | “L’Ultima Immagine”. Videoconferenza della Fondazione Grande Oriente con Silvia Ronchey dedicata al filosofo James Hillman

    Silvia Ronchey presenta in videoconferenza, su iniziativa della Fondazione Grande Oriente d’Italia, il volume “L’ultima immagine”. L'opera è frutto dell’intenso dialogo che lo psicanalista e grande filosofo americano di nascita ma europeo di cultura intrattenne dieci anni fa con l'autrice. Introduce il Bibliotecario Bernardino Fioravanti. Le conclusioni sono affidate al Gran Maestro Stefano Bisi.

  • 2021 | Ars Hillmaniana 2021. Per una psicologia immaginale. #1

    Convegno "Per una Psicologia Immaginale - In memoria di James Hillman"

    4 dicembre 2021
    Palazzo della Cultura - Catania

    In occasione del decennale della scomparsa di James Hillman , L''Impa CentroStudi in collaborazione con il Comune di Catania, hanno organizzato questa giornata di studi sul fondatore della psicologia archetipica, invitando alcuni tra i maggiori collaboratori di James Hillman. Silvia Ronchey, Riccardo Mondo, Luigi Turinese, e in collegamento da casa Hillman , la sua compagna , l'artista Margot Mc Lean e il regista Enrique Pardo da Parigi. Nell' occasione sono stati presentati i volumi "L'ultima immagine di James Hillman e Sivia Ronchey" ( ed. Rizzoli ) e "Caro Hillman . Venticinque scambi epistolari con James Hillman", di Riccardo Mondo e Luigi Turinese ( ed. LSWR )

  • 2021 | Ars Hillmaniana 2021. Per una psicologia immaginale. #2

  • 2021 | Seidisera Magazine, RSI. Silvia Ronchey “L’ultima immagine” James Hillman

    Silvia Ronchey ospite di SEIDISERA Magazine, lo spazio di seconda lettura della Radiotelevisione svizzera RSI.
    Riflessioni su temi di attualità e sul vivere. In studio Michela Daghini.

     

  • 2021 | Il posto delle parole. Silvia Ronchey “L’ultima immagine” James Hillman

  • 2021 | Ricordo di James Hillman a dieci anni dalla scomparsa. Jung Italia

     

    L'IMPA CentroStudi promuove un ricordo di James Hillman e del suo straordinario contributo alla contemporaneità, a dieci anni dalla scomparsa.
    Emanuele Casale intervista Silvia Ronchey, Riccardo Mondo e Luigi Turinese.

Stampa (7)

  • La Repubblica | 15/10/2021 | Hillman dopo Hillman, James Hillmann e Silvia Ronchey

    Silvia Ronchey: Secondo la frase di Keats che citi sempre, il mondo è «la valle del fare anima».
     

    James Hillman: Dobbiamo immaginare quella terribile dispersione del mondo. È l’idea da cui voglio partire. Essere qui, a Ravenna, nel momento della più acuta fantasia di crollo del nostro tempo, immaginandoci nel quinto secolo. Qualcosa di molto più profondo di ciò che accade ora a Wall Street (durante la crisi del 2008 ndr). Che è un fenomeno macroscopico, ma non è tutto, vero? È solo una parte della fantasia archetipale dell’occidente che 

    sta crollando. Ricorre così spesso nella nostra storia la fantasia della fine del mondo. Il mondo di oggi offre un contesto storico perfetto all’idea di fine. È il sentimento do- minante della nostra epoca. E allora tutto quello che vedremo qui a Ravenna dovrà essere l’indizio di una detective story, un indizio da sfruttare per dedurre che cosa, invece, resta. Che cosa continua. Che cosa c’è da imparare? È questo che voglio come apertura del libro. E voglio sia chiaro da subito che questa è la domanda: cosa possiamo imparare? È per questo che dobbiamo capire quali immagini gli esseri umani di allora hanno usato per contrastare l’ansia della fine in quel momento di gigantesca distruzione. Quali? 

    [...] 

     

    J.H. Quella che rimane più fortemente impressa in me è l’immagiNe del globo blu. L’abbiamo vista due volte, ed era in tutti e due i casi al centro del mosaico dell’abside. 

     

    S.R.: Una è qui, a San Vitale. La teofania del Cristo Cosmocratore, al centro del catino absidale. È ispiRata al versetto dell’Antico Testamento che recita: «Il cosmo è il mio trono, e la terra sgabello per i miei piedi». Quello che chiami il globo azzurro, quindi, è simbolo dell’universo, del cosmo. 

     

    J.H.: E l’altra era di nuovo un globo blu, ma all’interno di un mondo molto verde. 

     

    S.R.: Nella Trasfigurazione di Sant’Apollinare in Classe. Il grande disco blu che sovrasta la natura ver- de e circoscrive un cielo stellato. 

     

    J.H.: Il globo azzurro sopra il gregge immerso nel verde. Un’immagine meravigliosa. Di tutte quelle che abbiamo visto, è quella che rivedo di più. Ne visualizzo anche altre quando ci penso, ma questa è l’immagine che mi viene immediata, che tengo dietro le palpebre, subito al di qua degli occhi. \ Quello del globo blu è un simbolo molto attivo nella psiche odierna. Quando gli astronauti, anzi un astronauta in particolare, l’ho conosciuto a un convegno, quando ha guardato fuori e ha visto la Terra, gli è apparsa come un globo azzurro ed è stata per lui un’esperienza assoluta, mistica. 

     

    S.R.: Una sensazione di bellezza ma anche di fragilità. Il nostro pianeta, oggi lo sappiamo bene, è fragile. 

     

    J.H.: Quello che voglio fare è ricollegarmi all’idea di Jung. Il quale, dopo avere vi- sitato il Mausoleo di Galla Placidia, ha avuto nel Battistero degli Ortodossi una visione che lo ha connesso con il suo sé o comunque vogliamo chiamarlo. Alla visione di Jung io contrappongo quella dell’astronauta, che ne rappresenta il rovesciamento copernicano: vedere improvvisamente la Terra, nella sua bellezza, come cosmo. È stato decisivo per lui e dopo di lui per moltissimi, considerato l’enorme uso che è stato fatto di quell’immagine, sulle copertine delle riviste e dei libri, ovunque. Il globo blu. Questo è ciò che dev’essere protetto. È la nostra madre, è la nostra sacra terra. È il nostro pianeta. È la nostra diversità. Non siamo Marte, né Venere, né Mercurio, non siamo la luna. Quei corpi celesti sono tutti aridi, sterili. Mentre il nostro è un prezioso, acquoso mondo azzurro. 

    E davanti a quest’immagine si staglia la nostra più profonda istanza ambienta- le. Più profonda, perché non riguarda la sostenibilità o la riorganizzazione economica o le emissioni dei gas serra, non atti- va il tipo di linguaggio al quale siamo abituati. Ci parla nei termini di un’esperienza quasi religiosa della bellezza. Il mondo è così bello, dobbiamo lasciarlo fiorire. Ci sono campi verdi e animali. È ciò che videro gli artisti che usarono quella stessa immagine a Ravenna. La dolcezza e bellezza del mondo in cui tutti coabitiamo, pecore e santi, genti e natura. 

    E credo che questa sia la sola vera motivazione a salvare la Terra che possa diventare collettiva. È la più forte delle motivazioni perché tutte le altre sono economiche o tecnologiche ma non toccano l’anima nello stesso modo. La visione dei mosaici dell’abside della basilica di Sant’Apollinare in Classe ha un potere motivazionale che la ratio del «dobbiamo continuare a sopravvivere» non ha. La bellezza è un’istanza molto più potente per- ché la bellezza evoca l’amore. Questo dice Platone. 

     

    S.R.: Nel Simposio, nel dialogo tra Socrate e Diotima, o nel Fedro, quando parla dell’anima che «in terra sta smarrita, palpitando co- me un’arteria che non trova la propria apertura, ma appena vede la bellezza è invasa dall’onda del desiderio amoroso e le si sciolgono i canali ostruiti e prende respiro». Ma anche nella dottrina del sufismo, che del resto è uno sviluppo di quella platonica e neoplatonica, bellezza e amore sono i primi due elementi della triade cosmogonica. Pensiamo a Sohrawardi. 

     

    J.H.: Ma, più semplicemente, lo sappiamo tutti. Quando ci innamoriamo, la persona di cui siamo inna- morati appare bella. E può non essere così, il suo aspetto in sé può es- sere tutto fuorché bello, ma noi vediamo bellezza. E quando vediamo bellezza in qualcosa, la amiamo. Il nostro amore si dirige lì. Le due cose sono intimamente connesse. E questo è platonico. Bellezza e amore non possono separarsi. E quando perdiamo il senso della bellezza di qualcosa, ci disamoriamo. È sempre così. E questo significa che se vogliamo preservare il pianeta dobbiamo vedere la sua bellezza, perché se la vediamo ce ne innamoriamo.  E se ci innamoriamo della Terra, non vogliamo farle del male. Vogliamo tenerla stretta. La prima cosa che vogliamo fare a ciò che amiamo è proteggerlo, stringerlo a noi, aiutarlo.  E questa è una motivazione completa- mente estranea alla sfera economica, o a quella dell’espiazione, del senso di colpa per quanto abbiamo fatto in passato. No. Non toccatela. È questa l’istanza che va dritta al cuore. Ed è un’istanza che ho visto su quel muro, in quel globo blu, nei prati verdi di quel paradiso. 

     

     



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  • Robinson - La Repubblica | 16/10/2021 | L’immaginazione al potere, James Hillmann e Silvia Ronchey

    S.R. – Che cos’è un’immagine?

    J.H. – Eccoci alla domanda fondamentale. Se capissimo cos’è un’immagine, ci libereremmo da ciò che oggi pensiamo siano le immagini. Che non sono immagini vere, intere: sono immagini fratturate, immagini vicarie, disperse, frantumate, come se ci trovassimo davanti a un mosaico scomposto. Abbiamo centinaia di tessere, nessuna delle quali è l’immagine. Tutte testimoniano l’esistenza di un’immagine dalla quale sono cadute. Tutte recano in sé la possibilità di essere in qualche modo messe insieme, come facevano i grandi mosaicisti. Come facevano? Come riuscivano a trarre da quelle centinaia di pezzetti di pietra un’unica figura, così imponente, commovente, bella, spirituale?  Il fatto è che avevano dentro di sé un’immagine. Era l’immagine interiore che creava ciò che scorgiamo come entità visibile. Vorrei ricordare en passant che Michelangelo parla di questo quando usa il termine ‘immagine del cuor’.

    S.R.  — Stai citando una delle poesie di Michelangelo:  “Amor, la tua beltà non è mortale:/  nessun volto fra noi è che pareggi / l’immagine del cor, che ’nfiammi e reggi / con altro foco e muovi con altr’ale”.

    J.H. – E’ un’immagine che è del cuore o che è nel cuore. Come se l’artista, nel fare un ritratto, nello scolpirlo, attingesse l’immagine dal cuore dell’individuo che stava rappresentando. Cosicché, diciamo, la faccia visibile, la sembianza che ne risultava, era in realtà il carattere o l’essenza dell’anima. Credo quindi che la vera immagine sia quella della forma interiore, della forma psichica, della forma dell’anima. Una forma che tenendo insieme le varie visibilità dà profondità al visibile, lo fa diventare visibilità dell’anima. Ed è qualcosa che abbiamo perso. Abbiamo confuso l’immagine con il visibile.

    S.R.  — Con la parvenza: l’eidolon…

    J.H. –  … se vogliamo dirlo con Platone. Pensiamo alle immagini nella loro sola manifestazione materiale, come se coincidessero con la parvenza visibile, mentre la mente antica riusciva a vedere la figura dietro le tessere del visibile. L’immaginazione degli antichi era connessa al cosmo. Riuscivano a leggerlo. A scorgere nel cielo figure invisibili all’occhio.  Per Plotino l’artefice di un’immagine, nel crearla non deve “gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginare”.

    S.R. — Nel caso di una divinità, “immaginarla come sarebbe se acconsentisse ad apparire ai nostri occhi”, e cioè secondo una verità interiore che è un riflesso dell’intelligibile, il quale è peraltro, in termini platonici, l’unica realtà.

    J.H. –  Quindi occorre fare attenzione alle parole. Usare la parola immagine solo per quella che ho chiamato in latino figura, e contrapporla alla facies, alla faccia. Michelangelo non si limitava a riprodurre la faccia di qualcuno. Ne evocava l’immagine, ossia, per così dire, rappresentava l’essenza della persona. 

    S.R. – E così facendo si riaccostava alla dottrina platonica e neoplatonica, da cui l’arte occidentale, nel suo accentuare e perfezionare il realismo naturalistico, si era già molto prima di Michelangelo allontanata, e che era stata invece portata alle estreme conseguenze a Bisanzio Se guardiamo le icone bizantine vediamo un’immagine dall’apparenza molto elementare, che spesso da noi oggi viene percepita come un’arte meno avanzata, meno perfetta, per la semplicità del disegno, ma la cui imperfezione è voluta, perché …

    J.H. –  … perché ciò che importa veramente è ciò che sta dietro e che non è visibile. Non visibile attraverso gli occhi. 

    S.R. – Il che richiede una grande disciplina. Ma è questo il retto sguardo con cui guardarla. Lo sguardo teorizzato dai teologi e dai filosofi bizantini, secondo cui l’immagine dev’essere una via per riattivare il contatto con la nostra anima, per attivare una diversa energia psichica.  

    J.H. –  Risvegliare un altro occhio per vederla.  O per esserne visti. L’icona è stasi. E’ statica. Arresta. Ha il compito di concentrare, focalizzare. Ora, ecco un’idea. San Tommaso d’Aquino dice che la bellezza interrompe il movimento. Joyce ha ripreso questa concezione tomista. Per lui ogni immagine che promuova il movimento, l’azione, è pornografica. Potremmo anche definirla propagandistica, nel momento in cui ci spinge a fare questa o quella cosa. Mentre l’immagine vera è statica, arresta il movimento. E’ sospensione. La vera immagine ci guarda. Che cosa fa alle nostre emozioni il suo guardarci? Perché ci fermiamo davanti alla staticità dell’immagine? E’ un effetto Medusa? Qual è l’effetto della stasi dell’icona sulla psiche, sull’emozione? Perché c’è un’intenzionalità nel suo sguardo che ci inchioda, in quegli occhi, quegli occhi, in quell’oscurità sotto gli occhi che in qualche modo si impadronisce di noi. Questo è ciò che mi ha insegnato Bisanzio. Mi ha insegnato che c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile. Che sotto, anzi no, non sotto, dentro, all’interno di ciò che è in mostra, della presentazione dell’immagine, c’è l’immagine invisibile. Ed è l’immagine invisibile che ci guarda mentre guardiamo l’immagine visibile. Ma perché l’immagine invisibile ci guarda? Guardo l’immagine visibile perché voglio essere colpito, o già lo sono, dalla sua bellezza. Guardo l’immagine visibile per apprendere qualcosa delle dinamiche e dei gesti necessari a comporre un’immagine. Imparo arte dall’immagine visibile. Ora, è possibile? Ti sembra corretto?

    S.R. — Sì, direi di sì.

    J.H. –  Dici di sì? Ma perché allora l’immagine invisibile vuole guardare me? Chi sono io per essere guardato? Vuole guardarmi, ed è questa l’imperscrutabile bizzarria del funzionamento dell’immagine, la sua frastornante indecifrabilità. L’immagine deve, in qualche modo, imparare da me. Forse vuole vedere il mondo come io lo vedo? Ma il mio modo di vedere il mondo è stupido, quindi perché vuole impararlo da me? Che cosa mai può imparare? Credo che impari — ah (sospira), credo che impari le vie della tristezza, le vie di chi è caduto, le vie dell’irredento, ed è perciò che fa emergere dal retroscena quel che vi si cela, qualunque cosa sia. Credo che porti compassione all’anima del mondo. La infonde, induce l’anima del mondo ad avere compassione del mondo. Se il mondo non fosse sentito come incompleto, o come irredimibile, non mostrerebbe la sua eterna tristezza, il pianto di Sophia. Non la esalerebbe; resterebbe del tutto freddo. Quella tristezza è necessariamente intrecciata al mondo, è il suo primum, il suo attributo primo.

    S.R. — Questo è gnostico, James.

    J.H. –  E’ molto importante che il mondo possa sempre essere sentito nella sua intrinseca patologia. Non mi piace l’idea che tutto sia redimibile. Credo che in quell’idea stia l’inferno. In altre parole, non mi piace l’idea di una salvezza universale o comunque di una possibilità di salvarsi in un modo o nell’altro.

    S.R. — Sempre più gnostico, anzi manicheo.

    J.H. –  C’è una tenebra. Sì, e devo dire che mi conforta sentirla. Quando mi interrogo, devo rispondermi che c’è.

    S.R. — Quindi è una tenebra che senti dentro di te come fuori di te?

    J.H. –   E’ data con l’universo.

    S.R. — In che senso?

    J.H. –  Con il cosmo, non con l’universo, con il cosmo. La tenebra è intrecciata al cosmo. Non lasciarlo fuori, scrivilo.

    S.R. — Lo sto facendo.

    J.H. –  Non bisogna pensare che tutto possa essere salvato, che è l’idea cristiana, e io non sono un cristiano. Noi non sappiamo che cosa possa essere salvato e cosa no e su cosa sia follia applicarsi. Ma io mi ci applico. E mi piace farlo. Mi piace ancora.

    […]

    Non è questa, alla fine, la grande domanda, che Henry Corbin non si è stancato di porre, che cosa è successo all’immagine nel nostro tempo? Che cosa è successo da quando le immagini erano il segnavia della conoscenza e della verità? Da quando erano portatrici di santità, recavano in sé una tale importanza da costituire il dispiegamento della bellezza in quanto tale, e da non poter essere pertanto in alcun modo eluse o svilite? Erano rivelazione. Ma quale immagine nel mondo di oggi si può definire così? Quella che andiamo a vedere al cinema? Quella che guardiamo in tv il sabato sera? C’è un’immensa discrepanza tra queste immagini e quelle che possono dirsi, in un certo senso, sacre, rivelazioni, come le ho definite un momento fa. Ma vorrei riprendere il concetto di verità e bellezza. Ho usato poco fa entrambe queste parole.

    S.R. — Sì. Le immagini come segnavia per la conoscenza della verità e il dispiegamento della bellezza.

    J.H. –  E allora come posso io, mentre sto morendo, parlare di immagini, o dell’immagine, o di un’immagine come rivelazione della verità? Che cosa sanno le immagini? Che cosa non sanno? Perché vengono a noi? Come possono le immagini che mi circondano guidarmi alla verità o alla bellezza o a qualsiasi cosa, quando sono inondato da un caos di immagini? Ma sono effettivamente immagini? Che cosa sono?

    S.R. — Forse sono quelle che abbiamo chiamato a Ravenna immagini facili, false, ingannevoli?

    J.H. –  Preferisco usare la parola “cadute”. Ma “cadute” implica perfettibilità. […]  Le immagini vere sono quelle che non sollecitano l’azione. Sono false quelle che la sollecitano. Il che varrebbe a dire che tutte le immagini che non siano ipnotizzate dalla morte o che in qualche modo non la incorporino — non so quale parola usare qui — sono immagini false. Questa sarebbe l’idea. Ma come formulare quest’idea in modo che dia senso?

    S.R.  — Forse usando la persuasione dell’icona, il suo mostrarci che l’immagine più profonda è celata e deve essere immaginata?  Il potere sulla psiche della sua stasi, della morte-in-vita che le leggiamo negli occhi? Hai sostenuto molte volte che per essere vivi ci serve la morte. Una tua celebre frase afferma che una vita o una società che non tenga vicina la morte è moribunda, morente.

    J.H. –  Morente! Ah, proprio come me! [Ride]. In realtà c’è una commistione delle due, non c’è una linea di demarcazione. Tant’è vero che in questo enigma approdiamo a un luogo in cui non sappiamo dove siamo.

    S.R. — L’enigma dell’icona?

    J.H. –  Anche quest’altro enigma, che mentre sono qui steso nel letto e parlo con te, cerco di decifrare per capire, per scoprire dove tracciare la linea di demarcazione tra vita e morte se mi venisse chiesto di tracciarla. E’ nel parlare? È nel respirare? O in che cos’è? Nel sognare? Questa è la domanda.

     

     



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  • LaVerità | 23/10/2021 | Hillman e la missione impossibile di por…, Marcello Veneziani



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  • Corriere di Arezzo | 29/10/2021 | Nel libro 'L'Ultima Immagine' l'eredità …, Claudio Bianconi



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  • Il Foglio | 18/11/2021 | Hillman l'italiano, Nicoletta Tiliacos



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  • Alias - Suppl. de il Manifes… | 05/12/2021 | A Ravenna, James Hillman salda il suo de…, G.S.



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  • Corriere di Bologna | 22/12/2021 | Nell'abisso dei mosaici, Massimo Marino



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Segnalazioni Stampa (1)

  • ITALO I SENSI DEL VIAGGIO | 02/11/2021 | L'ultima immagine, Dario Morciano



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