Petrarca, l'unità d'Italia “extra ecclesiam”
Articolo disponibile in PDF
“Piangi, che ben hai donde, Italia mia”, scriveva Leopardi. E’ curioso, ma quando si prova a capire le vere o presunte incongruità della politica del nostro paese, non si tiene mai abbastanza conto del fatto che, lungo la maggior parte dei secoli della sua storia, non si è mai autogovernato. Che è stato invece dominato da altre potenze o governi — che si trattasse di altre nazioni o dello stato della chiesa. Che prima della sua relativamente breve storia nazionale non ha mai espresso un’élite di governo che non fosse legata a interessi stranieri — salvo eccezioni di durata breve, non pertinenti a quella “lunga durata” che è la sola a permettere “la diagnostica, l’auscultazione” di una realtà storica, per usare le parole di Fernand Braudel. Anche quegli intellettuali che furono nel tempo fautori di uno stato italiano unito e saldamente centralizzato rimasero in fondo scettici sulla realistica possibilità di un autogoverno.
Proprio ora, nell’affaccendarsi diagnostico postelettorale di analisti e commentatori italiani o stranieri, indipendenti o di partito, è stato curato da Ugo Dotti per Diabasis (Lettere all’imperatore. Carteggio con la corte di Praga. 1351-1364, 155 pp., 23 euro) un libro utile, perché mostra la posizione in proposito di uno dei più grandi intellettuali italiani politicamente attivi: Petrarca. Spesso celebrato per la sua funzione, o finzione, di intellettuale super partes, e per la sua missione ad Avignone, all’apice della sua visibilità pubblica oltre che letteraria aspirava soprattutto, come queste lettere ci rivelano, a un governo esterno che liberasse l’Italia “da tutte le miserie” procurate dalla sua frammentazione e debolezza. Nel revival dell’ideale classico della prima età umanistica, Petrarca perorò presso Carlo IV un’unità italiana indipendente dalla chiesa di Roma e ispirata a una tradizione romana antitetica: quella imperiale, la restauratio imperii che già Dante aveva sognato in Enrico VII.
Ciò che emerge dalle lettere di Petrarca all’imperatore non è tanto il patriottismo quanto lo scetticismo, che già affiorava in altri suoi scritti politici dove, contrapponendo la disincantata Ragione (conscia dei perenni conflitti che bloccavano ogni risoluzione del dramma politico italiano) alla propositiva Speranza (di una composizione, sotto una restaurata unità laica, degli interessi di quello che Guicciardini chiamerà il particulare), esplicita un’ancora attuale realtà: “Mi sia dunque concesso di affermare la verità: l’uomo è davvero l’animale più stolto e più che mai desideroso del proprio danno: per catturare tutti gli altri occorre armarsi d’esca, per avvincere l’uomo basta qualcosa che sia attorniato dai sibili di una qualche fama”.