Se il Sacro fa orari d'ufficio
“Dovrebbero sempre esserci nelle città chiese semibuie in cui si possa sedere e respirare con regolarità”, scriveva Thomas Merton mentre vagava per la febbrile New York degli anni 60. Chiunque, cristiano o no, avrà sempre bisogno di una via di fuga, di uno spazio in cui l’accelerazione del tempo si fermi e si possa esercitare quella che per alcuni è la preghiera, per altri la meditazione, per altri ancora, semplicemente, l’abbandono dell’io.
E’ quindi provocatoria la domanda con cui si apre domani al monastero di Bose il VII Convegno Liturgico Internazionale su Chiesa e città: “la nostra società ha ancora bisogno di chiese”? Per rispondere sono venuti da tutto il mondo studiosi laici ed ecclesiastici, cattolici, ortodossi, luterani, anglicani e riformati: sociologi della religione, come Danièle Hervieu-Léger dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, politologi come Marcel Gauchet dell’Institut Aron, liturgisti come Albert Gerhards e Keith Pecklers, oltre a teologi e storici, urbanisti e architetti, monaci, preti, prelati delle più alte gerarchie ecclesiastiche delle varie confessioni cristiane.
Il tema sarà affrontato dal punto di vista antropologico, sociologico, storico, liturgico, teologico, architettonico e urbanistico, e certo si porranno anche altri, non meno spregiudicati quesiti: ad esempio, può ancora la Chiesa produrre bellezza, in un’epoca in cui, come anche l’attuale pontefice denuncia, l’assenza di bellezza domina sempre di più il mondo e contagia anche l’arte e l’architettura religiose? e poi, la Chiesa fa buon uso delle sue chiese?
“Un tempo la chiesa era uno spazio offerto alla città per ciò che chiamiamo il quaerere deum”, spiega Enzo Bianchi: “per il silenzio, per la contemplazione, oltre che per l’incontro liturgico. Ora della chiesa si vuole fare di tutto tranne che questo. La troviamo sempre più spesso occupata da forme stravaganti di comunità che non hanno nessun senso all’interno di un’idea seria di liturgia”. In effetti, chi non si è imbattuto, entrando in questi antichi luoghi, in nuovi singolari occupanti? Festevoli quanto rumorosi gruppi dai caftani multicolori e dalle imbarazzanti vene canore, o palestrati, inquietanti “soldati di Cristo” muniti di alti stivali di cuoio, cinturoni e surreale spada al fianco, sono ogni giorno più bizzarre e molteplici le comunità cui la nuova infatuazione cattolica dà spazio nella chiesa, anche in senso letterale.
Ma è ancora più grave il problema delle troppe chiese chiuse. “Non me ne parli”, commenta Enzo Bianchi. “Mi trovo spesso in città e di questi tempi, dopo pranzo, cerco invano il fresco e la penombra di un luogo di culto dove trovare, fra le colonne, alla presenza anche di una sola immagine sacra, il raccoglimento e il silenzio per farmi qualche domanda. Sempre più spesso mi tocca tornare in albergo. Ormai, se va bene, le chiese fanno orario d’ufficio: 8-12, 16-18. Come possono assolvere al compito per cui la chiesa è nata e sta nella città, e che oggi è ancora più pressante, nella frenesia della vita, nella convulsione del traffico? Ci si lamenta che i fedeli diminuiscono, ma poi si fa di tutto per non farli entrare”.
E la capacità della Chiesa moderna di produrre bellezza architettonica? “Il problema non è tecnico”, specifica Bianchi, “e non riguarda la genialità degli architetti, ma una questione più profondamente spirituale. Manca il senso dello spazio sacro, la percezione esatta e profonda di cosa sia un’assemblea liturgica, ben diversa da un’assemblea politica o sindacale. Manca la forza spirituale, e per questo mancano le idee”. Non che le chiese moderne siano sempre sgraziate, come certi stereotipi vorrebbero, né che si debba tornare a un tradizionalismo architettonico anacronistico, come certi esempi di costruzione, nel Nordeuropa, di perfetti falsi romanici. “Il punto è che molto spesso quelle moderne non sono chiese, non sono spazi sacri, costruiti intorno agli elementi sacri — l’altare, l’ambone —, che vengono invece aggiunti alla fine, quasi fossero appendici, arredamento anziché fulcro intorno al quale si costruisce uno spazio”.
Il difficile rapporto tra la Chiesa e le chiese, la difficoltà del cristianesimo di darsi un’immagine e di trovare uno spazio non anacronistico nella città rispecchiano dunque con impressionante simbolismo la difficoltà odierna della Chiesa di individuare e delimitare la sua collocazione: non più “al centro”— la cattedrale di fronte al palazzo del governo — ma a fianco, magari anche alla periferia, materiale e simbolica.
Rispetto ai rigidi canoni delle committenze del passato temporale della Chiesa, le proposte emergenti a Bose non vogliono dare direttive ma direttrici, canoni, criteri sul ruolo e sull’utilizzo delle chiese nella società di oggi, che è ben diversa da quella di ieri — e nessuna istituzione più della Chiesa ha del resto saputo adattarsi meglio, quando ha voluto, all’evoluzione sociale dei tempi.