Il suo nome è lotta di classe
Nel ’900 diventò simbolo dei marxisti, ma la sua guerra resta un mistero per gli storici, reso più banale dai divulgatori
Articolo disponibile in PDF
Secondo alcuni fu un atto postumo della guerra sociale, secondo altri “un’altra guerra italica”. La terza guerra servile (73-71 a.C.), o più propriamente guerra contro Spartaco, o volendo Guerra di Spartaco, come s’intitola il libro, appena tradotto da Laterza, di Barry Strauss — un professore della Cornell già noto per le sue narrazioni romanzate della battaglia di Salamina e addirittura della guerra di Troia —, è una delle più studiate di tutta l’antichità. Perché coinvolge il grande tema dello schiavismo nella società romana e il rapporto tra il predominio politico della parte aristocratica e la condizione degli schiavi. Perché nel 900 fu assunta a simbolo dell’eterna spinta rivoluzionaria delle classi subalterne, se non della lotta di classe tout court. Perché non c’è storico antico, romano o greco, che concordi nel raccontarla, né storico moderno che concordi nell’interpretarla. Perché è, in realtà, un vero e proprio mistero storiografico: “Io non so definire questa guerra”, dichiarava già Floro nel capitolo sul Bellum Spartacium.
Nella più popolare delle fiction dedicate a questa “guerra indefinibile”, lo Spartacus di Stanley Kubrik, c’è una scena in cui Crasso-Lawrence Olivier comunica a Sempronio Gracco-Charles Laughton ciò che la sua vittoria comporterà: "In ogni città e provincia sono state compilate le liste nere”. “Immagino che il mio nome sarà nella lista”, risponde Gracco. E Crasso: "Tu sei il primo". La sceneggiatura del film, del 1960, era di Dalton Trumbo, costretto a scrivere sotto falso nome perché nelle liste nere di McCarthy. Il film fu considerato “socialmente pericoloso”, la propaganda maccartista cercò di boicottarlo, finché Kennedy andò a vederlo e disse che gli era piaciuto.
Non aveva torto, dal suo punto di vista. Pur non mancando attacchi espliciti all’imperialismo americano, che già negli anni 50 si specchiava nel mito di Roma, il binomio Trumbo-Kubrik si basava sul romanzo di Howard Fast(ovsky), ebreo, comunista e a sua volta vittima del maccartismo, ma si collegava di fatto più alla visione di Mommsen che a quelle della storiografia marxista, a loro volta legate alla Spartakusbund di Rosa Luxemburg e alla rivolta spartachista soffocata nel sangue, nel ’19, quasi come quella del 71 a.C.
Insomma, anche concedendo il possibile alla divulgazione e alla fiction, Strauss avrebbe potuto insegnare al lettore molte cose. Spiegare l’attrattiva di Spartaco nel Secolo Breve, che considerandolo un anticipatore della lotta di classe si capacitava del perché gli antichi non sapessero come definire la sua guerra. Chiarirne i misteri fattuali, o tentarne almeno un bilancio oggettivo, in presenza di posizioni tanto decise quanto diverse da parte della storiografia classica e classicista. Interrogare il dossier di Spartaco alla luce del nostro tempo — una luce certamente diversa da quella in cui lo leggevano Fast, Trumbo e Kubrik, o Luxemburg e Liebknecht, o Mommsen, ma pur sempre una luce interpretativa. Sarebbe stato un modo per divulgare attualizzando, come fa sempre la vera storia.
La narrazione di Strauss è invece una volgarizzazione fine a se stessa. Contiene tutti gli stereotipi del marketing editoriale-industriale americano. “La storia di Spartaco è una storia d’amore e una crociata”, annuncia l’autore fin dall’introduzione. Un po’ di love story, ma anche di gender (Strauss fa di tutto per valorizzare il ruolo delle donne in una vicenda francamente maschile) e di new age (il presunto dionisismo della “compagna” di Spartaco visto come “teologia della liberazione”), un po’ di sport e di sangue (le lotte gladiatorie), e naturalmente tanto war game. Con di fatto un’unica “Conclusione”: la ribellione di Spartaco aiutò Augusto a diventare imperatore, perché indusse i romani “a chiedere ordine e a sottomettersi volontariamente alla sua dittatura”.