Leptis Magna e i suoi custodi
In Libia, la grandiosa città romana, patrimonio dell’umanità, è affidata a un’italiana. Da decenni tra le sabbie del deserto, Luisa Musso protegge il sito, ora minacciato dall’Isis. “Piango per Aleppo e Palmira”
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La chiamano la “Guardiana di Leptis Magna”. Direttore della missione archeologica italiana che da decenni scava e restaura la grandiosa città romana tra le sabbie del deserto dell’odierna Libia, Luisa Musso è una studiosa influente e una donna straordinariamente coraggiosa, che un’ostinata scelta esistenziale lega fin dalla giovinezza agli avamposti della civiltà mediterranea: quello che Braudel chiamava il Mediterraneo Maggiore, e che oggi è in fiamme. Ordinaria di Archeologia delle province romane all’Università di Roma Tre, il suo oggetto di studio è il limes, ossia la frontiera tra l’antico impero romano e le culture “altre”, che ha segnato e ancora oggi segna il crinale tra ciò che a volte arbitrariamente distinguiamo come oriente e occidente e contrapponiamo come civiltà in scontro. E’ su questo confine, sul suo valore e sui rischi che corre, che la interroghiamo nella casa romana dove sosta tra l’una e l’altra delle sue spedizioni, circondata da libri, mappe, documenti e disegni. A partire, appunto, dal primo ricordo di Leptis Magna. “La città di marmo, il profluvio di colori in dialogo con la natura e la monumentalità in cui sentivi l’aria di Roma, la mano dell’imperatore, e insieme i resti emozionanti degli edifici costruiti dalle élites africane prima che diventasse, con Settimio Severo, una città imperiale. Potrei definirla un’emozione materica. A Leptis fin dal primo sguardo vedevi i passaggi dell’integrazione e restavi subito folgorato. La cultura punica era venuta in contatto con Roma senza essere cancellata. Anzi era stata progressivamente avvantaggiata dall’ingresso nel sistema economico di una civiltà egemone capace non solo di creare infrastrutture e supporti ai popoli soggetti, ma di integrare la vecchia alla nuova cultura statale”. A quando risale questo tuo primo incontro con Leptis Magna? “Avevo ventotto anni, era il 1984, il periodo più duro degli anni di Gheddafi. Il dossieraggio era continuo. I miei amici libici, scherzando ma non troppo, dicevano che su cinque persone che incontravi due erano poliziotti e due informatori. Ma la quinta poteva essere davvero interessante: esisteva un’intelligencija di funzionari archeologi concentrati sul salvataggio dell’antichità. Anche loro erano controllati, ma il dialogo prescindeva dalla politica. Si lavorava tra simili”. Parli di salvataggio. In che senso? Qual era il lavoro? “Non c’era la corsa a funzionalizzare l’opera di restauro al turismo. Dagli anni 20, sotto la guida di archeologi come Pietro Romanelli, l’archeologia era stata dimostrazione, certo retorica e ideologica, di un ‘diritto-dovere’ dell’Italia coloniale di farsi custode di quelle zone. Ma così si è evitato l’effetto di ‘falso antico’. Il contrario delle massicce integrazioni e fastose ricostruzioni di alcuni siti dell'Asia Minore, penso a Efeso, Pergamo, ma soprattutto a Xanten, lungo il limes germanico. L’archeologia coloniale italiana, pur con i suoi limiti, ha evitato questa falsificazione, lasciando un know how ancora vivo 50 anni dopo”. Com’era l’atmosfera? “Gli scavi erano pochi, il paese incontaminato. Non c’era lo stress da affollamento internazionale oggi tipico dei grandi centri archeologici. Oltre a noi c’era solo la missione francese. Ogni tanto calavano gli inglesi, gli avventurosi che all’epoca compivano le grandi ricognizioni delle vallate del predeserto, con le loro land-rover cadenti degli anni 50 e 60, pantaloni corti e torso nudo. Venivano a rinfrancarsi da noi ‘privilegiati’ della costa: avevamo acqua, cibo, veri letti”. Ti hanno chiamata la Guardiana di Leptis Magna perché pian piano tutti hanno cominciato a rivolgersi a te: senza di te non sarebbe nato il museo né si sarebbero risolte innumerevoli emergenze. “Non esageriamo, ma è vero che dalla fine degli anni 80 ho molto contribuito alla costruzione del museo, allestito ex novo in luogo del precedente Antiquarium. Le risorse erano limitatissime ma i funzionari locali altrettanto disponibili. I ragazzi della missione italiana, insieme agli operai libici, trasportavano le statue avvolte in materassi legati con lo spago, con me in mezzo alla Via Balbia a fermare il traffico. Allestire il museo non era il mio ruolo ufficiale, ma una delle attività che mi venivano chieste ‘fuori sacco’. E una volta stabilita la fiducia poteva arrivare di tutto: dall’emergenza a una nuova scoperta nel deserto. ‘Guardiana di Leptis’ sono diventata sul campo, mettendomi a disposizione dei libici”. Gheddafi è morto nell’ottobre del 2011. Che cosa è cambiato da allora? “Sul momento sognavamo l’inizio di una nuova era con l’aiuto di Europa, Usa, Unesco, World Bank. Il sogno si è infranto nel 2014. Nessuno di noi, quel giugno a Leptis, ha percepito quanto la crisi si stesse acuendo. Ma avremmo potuto. Non c’era più un sistema politico capace di comporre uno scontro che oggi si ama chiamare tribale. Ma la parola “tribù” è sbagliata. E’ più corretto parlare di contrapposizione fra le diverse componenti della società libica, che si identificano con gli agglomerati urbani: le milizie di Misurata contro quelle di Bani Walid, quelle di Homs contro quelle di al-Zintan. E’ emerso anche un elemento islamista, certo, ma la componente religiosa non è determinante. Il nodo è il controllo del territorio e la spartizione degli enormi arsenali di Gheddafi tra i giovani cresciuti nel formarsi di queste nuove realtà locali ”. Dici che quando vai lì senti che la notte “sparicchiano…”. “E’ vero, ma negli ultimi mesi la vita ha ripreso una parvenza di normalità. Manca però il confronto. E’ difficile muoversi all’interno del paese. C’è una crescente chiusura della società. Quanto al grado di reale pericolosità della vita, non siamo al disastro. Né le antiche città né i siti archeologici hanno subito danneggiamenti. Nulla è successo a Leptis, né a Sabratha, né a Tripoli. Le zone frontaliere sono state teatro di traffici illeciti, penso alle statue di Cirene ritrovate sul mercato antiquario. Qualche pezzo è stato rubato a Bani Walid. Ma da noi non ci sono stati furti, grazie anche al Dipartimento delle Antichità che ha nascosto i materiali in luoghi sicuri”. Anche l’archeologo come persona o simbolo è oggi in pericolo, lo ha dimostrato a Palmira la decapitazione di Khaled Asaad. C’è rischio Is a Leptis? “Leptis non è Palmira. La componente Is esiste, ma è contenuta e per ora circoscritta alla regione di Sirte. La situazione è problematica ma non irreversibilmente compromessa. Ciò non toglie che la forte instabilità possa aprire nuovi scenari. Non dormiamo tranquilli e si auspica che gli interventi stranieri, sotto egida Nato, portino a creare le condizioni per un monitoraggio. Il primo effetto dell’instabilità è stata l’eliminazione della guardiania a tutti i livelli, dunque anche la polizia turistica e i custodi dei siti. In altre parole, la sorte delle antichità non la vedo male ma la vedo lunga: servono tempo e risorse per far ripartire la macchina”. Questo in Libia. Ma in Siria? “In Siria ci sono scavi clandestini e i reperti si trovano un po’ ovunque, perfino su eBay. Gli scempi si sono succeduti, come nel caso dei Tell, le montagnole a tronco di cono, emergenze di antichi insediamenti, ora scavate coi bulldozer. Ma nelle province del limes alla perdita di antichità si è associato qualcosa di immensamente più grave: la distruzione perenne di intere città storiche, di antichi e delicatissimi tessuti urbani“. Non stai pensando, dunque, a Palmira? “La distruzione più grave è quella di Aleppo. La perdita di una città perfettamente conservata e stratificata dall’antico al medievale fino al moderno. Tutto questo è scomparso irrimediabilmente. Da archeologa sono la prima a piangere per Palmira. Ma piango di più a vedere come hanno slabbrato Aleppo oppure Homs. Quella è la fine, irreversibile, di una stratificazione storica”. La fine, intendi, di ogni possibilità di studio? “Molto di più. La rottura della memoria di una comunità. Un altro esempio: tutto il sistema dei Marabutti, santuari di cui il paesaggio rurale era costellato e che l’islam più integralista attacca perché legati al sufismo, è stato cancellato. Non sono luoghi di culto cristiani, per i quali in occidente ci si indigna, ma islamici. Di fatto anche l’antica stratificazione di culti è stata spazzata via”. Una damnatio del passato? “Più che una deliberata damnatio vedo diversi fattori. Da un lato ci sono le ragioni ideologiche, ma non sottovaluterei la casualità e l’incuria. Non essendoci più la legge, il Kanun, tutto è deregolato e tutto si può distruggere magari per rinnovare in modo efferato, magari pro edilizia speculativa. Il terzo fattore è ovviamente la violenza militare e l’esasperazione che questa induce nelle popolazioni, innescando un rapporto selvaggio col territorio. Mi riferisco alla Siria ma questo vale per tutta l’area dell’antico limes. Non c’è uno scontro ideologico tra cristiani e musulmani, è un’idea falsa e una costruzione voluta. C’è una frastagliata contrapposizione interna, e qualcosa di ancora più preoccupante: lo scollamento delle popolazioni dai loro territori e quindi dalle loro tradizioni”. E’ questa dunque la distruzione che l’archeologo deve contrastare? Non solo e non tanto del singolo monumento, ma di un ambiente e delle sue tradizioni? “Direi meglio: delle sue connessioni. I danni recati al singolo monumento, lo dico con la morte nel cuore, sono collaterali. Il vero pericolo da cui l’archeologo deve proteggere è l’impoverimento del territorio in tutti i sensi. Non siamo ‘guardiani’ di rovine, ma di un tessuto che ha conservato una tradizione antica. Ciò da cui dobbiamo tutelare il mondo, nel nostro ‘avamposto’, è il rischio di cancellazione della consapevolezza dei popoli di appartenere alla propria terra e alla propria tradizione. L’abbandono della memoria, dell’identità, di cui le pietre sono testimoni ma gli umani attori e possessori”.