Una tartaruga di vite illustri
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L'immagine della tartaruga - avvolta, protetta e insieme ingentilita dal suo guscio - richiama la possibilità insita in ogni corazza: non solo strumento di difesa in guerra, ma anche splendore nel quotidiano, esaltazione della povera esistenza lì racchiusa. Pensare alle persone illustri come scaglie di un coriaceomosaico che nel corso dei secoli hanno protetto e abbellito il genere umano è un rimando all' arte di cogliere il tutto nel frammento, del valorizzare le tessere di un mosaico che l'occhio può comprendere solo se il cuore è capace di anticipargli la visione dell'insieme.
Silvia Ronchey raccoglie esistenze e le condensa in semplici frasi, a volte in una ancor più essenziale sequenza di sostantivi e aggettivi. Il guscio della tartaruga (Nottetempo, pp. 250, e 15,50), recente divertissement nel quale l'autrice colleziona vite più che vere di persone illustri è un affascinante percorso nella genialità umana.
Risalendo l'esile filo dell'ordine alfabetico ma libero di saltare a piacimento da un grano all' altro di questo invisibile rosario, il lettore visita passo dopo passo la Roma di Catullo e la biblioteca di Borges, scruta il castello interiore di Teresa d'Avila e rivive attraverso gli occhi del re di Asíne l'intera vicenda della guerra di Troia, penetra nella nebbia di Londra insieme a Dickens, ritrova la colonna e il fondamento della verità con Florenskij, decifra i numeri di Pitagora e segue Thomas Merton nel suo pellegrinaggioa oriente.
Laprosa della Ronchey non consente di distinguere la citazione letterale dall'adattamento ancor più fedele al pensiero dell'autore, quasi che la docente di Filologia classica e Civiltà bizantina faccia sua l'affermazione di Borges di essere «meno orgoglioso dei suoi scritti che delle sue letture». Già, perché in queste pagine è difficile dire dove la Ronchey sta scrivendo e dove sta invece leggendo a voce alta, sottolineando, narrando quanto altri hanno scritto prima di lei.
Le persone illustri vengono al contempo collocate nell'ambiente che è loro proprio e insieme trasfigurate in un'immagine altra, non meno autentica di quella storica: così Flaubert diviene un «eremita» la cui «tonaca era una lunga vestaglia scarlatta», così Stevenson appare come «un capotribù polinesiano », così Petronio inaugura nella storia la figura per nulla rara del «dandy», così il genio di Ildegarde di Bingen si scompone negli ingredienti del suo elisir da alchimista.
Ecome non sentirsi attratti da personaggi i cui tratti sembrano intagliati con il diamante della parola? Qui incontriamo Baudelaire «evaso dai bagni penali dell'angoscia», là troviamo Hofmannsthal che «nacque vecchio e morì giovane », ci imbattiamo in Verlaine «relitto perduto esposto a tutti i flutti», oppure ascoltiamo Schopenhauer che «aveva pensato di essere un libero docente che non riesce a diventare professore ». Vite di persone eccezionali, forse. Di certo a molti di loro si attaglia benissimo il detto di Confucio: «l'uomo superiore vive in pace con tutti, senza agire come tutti; l'uomo volgare agisce come tutti e non va d'accordo con nessuno». In questa stagione in cui la volgarità è prolifica, sarà bene non disperdere il patrimonio di pacifica saggezza custodito sotto il guscio coriaceo: «nulla - ci ricorda Florenskij - si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e qualche luogo, anche se noi cessiamo di percepirlo».
Ecco, le pagine della Ronchey ci portano in quel tempo e quel luogo che custodiscono il tutto nel frammento, che distillano il meglio che la mente umana ha saputo dare, che difendono e abbelliscono l'umanità con l'umile corazza di una tartaruga dalle mille scaglie.