Silvia Ronchey

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Warburg: occorre risuscitare il mito per non sprofondare nel caos

TTL - Cl@assici | Figlio maggiore di una famiglia di banchieri ebrei, sosteneva che i moderni Prometeo e Icaro, Franklin e i fratelli Wright, sono i fatidici distruttori della sfera della contemplazione che crea spazio al pensiero

24/05/2003 Silvia Ronchey

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La Stampa

Nel 1879, mentre Caikovskij metteva in scena l'Onegin e la Germania e l'Austria-Ungheria stipulavano la Duplice Alleanza e von Sie­mens costruiva il primo tram elettrico e nelle grotte di Altamira venivano scoperte le prime opere d'arte dell'uomo paleolitico, un allievo tredicenne del Realgymnasium di Amburgo, figlio maggiore di una famiglia di banchieri ebrei, decise di diventare uno studioso. Aby, così si chiamava il ragazzo, cedette a suo fratello Max la primogenitu­ra. Il piatto di lenticchie con cui la scambiò - l'acquisto di tutti i libri che avesse voluto - fu, dichiarò in seguito Max, l'assegno in bianco più esoso che avesse mai firmato. Mentre Max si occupava della banca, Aby si dedicava al greco e al latino, all'archeologia e alla storia dell'arte, alla filosofìa e alla storia delle religioni. «Dio è in noi», diceva, «e il lavoro quotidiano è la stessa cosa del servizio divino». Dai musei anseatici alla Biblioteca Vaticana, dalla ferrovia di Santa Fe al mitreo di Capua, Aby Warburg viaggia- va e guardava, annotava, fotografava, stu­diava. Comparava le danze delle ninfe e le traiettorie degli astri nello zodiaco, la disce­sa agli inferi di Proserpina in Rembrandt e il rituale del serpente fra gli indiani Hopi, l'antichità demonica dei greci e i dèmoni della Riforma.
«Siamo nell'età di Faust», diceva Warburg. Ma si considerava «nato in Platonia». Esplorava febbrilmente le regioni semisot­terranee che da un capo all'altro del mondo legavano la tradizione ellenica, indiana e amba all'alfabeto di simboli in cui ancora gli dèi pagani erano sopravvissuti come immagini delle costellazioni. Ripercorreva la via che erroneamente chiamiamo medie­vale, ma che in realtà, passando per Bisan­zio, collega in un'unica linea ininterrotta la tarda antichità al Rinascimento. Laggiù, logica e magia fiorivano ancora da un unico tronco. Warburg voleva riconquistare la chiarezza e superare l'opposizione tragica tra il pensiero magico e il discorso logico.
Aby Warburg era clinicamente pazzo. Temeva a volte che le sue opere sarebbero rimaste depositate negli archivi dei suoi psichiatri a Kreuzlingen. Sono le confessio­ni, diceva, di un incurabile schizoide. Ma tutta l'umanità è in ogni epoca schizofreni­ca. E lo è di più da quando la civiltà delle macchine ha distrutto quel senso di distan­za che il sapere scaturito dal mito aveva conquistato. Secondo Warburg il moderno Prometeo e il moderno Icaro, Franklin e i fratelli Wright, sono i fatidici distruttori della sfera della contemplazione che crea spazio al pensiero. Il fulmine imprigionato nel filo ha creato una civiltà che si allonta­na da! paganesimo. La connessione istanta­nea dell'elettricità distrugge la relazione degli uomini con l'ambiente. Il telegramma e il telefono polverizzano il cosmo. Il progresso, secondo Warburg, minaccia di riportare il globo nel caos. Occorre che un'umanità disciplinata risusciti il mito, riabiliti il simbolo, ristabilisca le inibizioni della coscienza. «Occorre sempre», diceva Warburg, «salvare Atene da Alessandria».

 

IL LIBRO

Aby Warburg e le metamorfosi degti antichi dèi
a cura di Marco Bertozzi,
Panini Editore, pp. 290, €32

 


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