Teodora a teatro
Lettere da Bisanzio
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Nel grande teatro della Porte St.Martin, a Parigi, la massa degli spettatori fu estasiata dagli arabeschi liberty disegnati da Victorien Sardou sulla figura di femme fatale che aveva saputo trarre, molto liberamente e in fondo anche castigatamente, dalle narrazioni «segrete» di Procopio, gli Anekdota, sulla base dell’edizione datane nel Corpus Bonnense da Wilhelm Dindorf (1833). La Théodora di Sardou venne rappresentata per la prima volta, con musica di scena di Jules Massenet, il 26 dicembre 1884, e cioè proprio sul cadere dell’anno fatale del decadentismo, l’anno in cui Joris- Karl Huysmans pubblicò A rébours, l’anno in cui Verlaine pubblicò in Jadis et Naguère la poesia Langueur: «Je suis l’empire à la fin de la décadence».
Pochi giorni dopo, nell’llustration Théâtrale del 3 gennaio 1885, apparve una dettagliata recensione della pièce, con i disegni di Emile Bayard, che ne riproducevano, fedelmente costumi e scenografia. Il dramma «in cinque atti e sette quadri» fu più tardi replicato molte volte in teatro, e soprattutto ripreso nel gennaio 1902 al Théâtre Sarah Bernhardt, nella messa in scena, celeberrima, in cui nei panni di Teodora recitò la divina incarnazione vivente della temine fatale di fine secolo.
Una singola, indignata voce di dissenso si era però levata in mezzo al tripudio generale già dopo la prima, in quelle vacanze di Natale dell’84. Era la voce di bizantinista allora giovane e sconosciuto, che vent'anni più tardi, tuttavia, avrebbe pubblicato una sua Théodora storica (Théodora, imperatrice de Byzance, 1904), forse stimolato proprio dalla «intollerabile deformazione letteraria» che aveva suscitato il suo sdegno alla rappresentazione di Sardou.
Quel giovane era Charles Diehl, il fondatore della moderna bizantinistica in Francia.
Diehl aveva cominciato a studiare fin dagli anni ’80 il periodo proto-bizantino, in saggi tuttora importanti come quelli dell’amministrazione bizantina in Egitto e a Ravenna. Ma la fama gli venne dopo il volgere del secolo. Una Théodora, che, dichiaratamente, è solo la sintesi (esquisse) della più vasta monografia costituisce il capitolo terzo delle sue famose Figures byzantines (1908), che si collocano in quella regione incerta tra erudizione, biografia, romanzo, assiduamente praticata negli ultimi due secoli dal gusto estetizzante francese. Se il Glossarium di Du Cange entrò nella biblioteca di Des Esseintes, le Figures di Diehl non mancarono in quelle di Gide e di Valéry.
Proprio l’Illustration Theâtrale, che aveva ospitato la recensione entusiastica della prima dell’opera, quattordici anni dopo, in un fascicolo dove ne riprodusse per intero il testo, ospitò, il 7 settembre 1907, un dibattito fra Diehl e Sardou stesso, ormai anziano, solo un anno prima della sua morte.
La critica che in nome della bizantinistica «scientifica» Diehl rivolse alla Théodora di Sardou, tuttavia, rispecchiava solo il moralismo dello studioso, deciso a difendere la sua imperatrice dalle fantasie del letterato - in realtà, come lo stesso Sardou sottolinea nella sua replica, ben più innocenti delle testimonianze di Procopio, già da tempo avallate da Gibbon. Sul piano storico e intellettuale, le fantasie di Diehl non debbono considerarsi quindi meno discutibili, nè immuni dalla misoginia tardottocentesca. Gli stereotipi dell’irrazionalità, dell’arbitrarietà e di una passionalità incontrollabile servivano, nelle sue Teodore, a mascherare e esorcizzare la realtà storica di un inquietante potere femminile a Bisanzio. Così nasce, sotto la maschera della scienza e all’insegna della pruderie, la moderna nozione di «bizantinismo».