Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Non toccate l'imperatore

Lettere da Bisanzio

01/04/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

Racconta Niceta Co­niate nel XII secolo che il geniale e terri­bile Andronico I Comneno riceveva anche i familiari e gli ami­ci intimi celato dietro una cortina di seta: nessuno po­teva scostarla (tranne, dice lo storico, certe «flautiste e cortigiane»).
L’irraggiungibilità, in­tangibilità e invisibilità dell’imperatore è uno dei dogmi astratti, esotici e eso­terici della corte bizantina, che cospirano alla teatra­lità, alla vocazione scenica del suo cerimoniale, di cui può forse dare un’idea l’Ivan il Terribile di Eisenstein.
Una delle cerimonie più belle e indecifrabili del Grande Palazzo è il gioco del Gothikòn, dall’indub­bio sfondo magico, che si svolge durante il banchetto dei Diciannove Letti ed è de­scritto nel Libro delle Ce­rimonie di Costantino Porfirogenito.
In realtà, nessuna nor­ma cerimoniale a Bisanzio è priva di significato, ma poiché quest’ultimo non sempre è intellegibile o no­to - non solo al normale let­tore, a volte neppure allo studioso - si può avere un’impressione di gra­tuità, di puro estetismo dei gesti, e questo può renderli ancora più suggestivi dan­do luogo talvolta a una per­cezione simbolista e sur­realista della cerimonia bi­zantina. Impressione gra­devole, ma falsa.
Oltre che dai te­sti rituali, la ster­minata aneddotica cerimoniale di cor­te è trasmessa da­gli storici, che per undici secoli han­no raccontato gli eventi dell’impero avvicendandosi in un’unica linea narrativa incentrata su Costantino­poli: una specie di camera fissa sulla corte in un inter­minabile piano-sequenza.
In un passo della Crono­grafia di Michele Psello, il grande storico dell’XI seco­lo (pubblicata in due volu­mi dalla Fonda­zione Valla con il titolo Imperatori di Bisanzio), l’im­peratore Romano IV viene portato in processione per es­sere acclamato dal popolo di Costantinopoli.
I paramenti ceri­moniali per la processione (gli stessi descritti nel De cerimoniis) sono così pesanti e rigidi che il basileus non può più muoversi: gonfio, pallido, serrato nella cupa porpora e nell’oro, è tra­sportato di peso, come una mummia - scrive Psello – o un fantoccio.
In un altro corteo avanza l’amante dell’imperatore Costantino Monomàco, una principessa circassa dagli obliqui occhi verdi. Al suo passaggio un colto e galan­te cortigiano - probabil­mente Psello stesso - cita a bassa voce la prima metà di un verso dell’Iliade: la fra­se che il vecchio Priamo pro­nuncia nel palazzo di Troia quando vede Elena, la prin­cipessa rapita a un’altra stirpe.
La giovane circassa ha sentito: si ferma davanti al cortigiano, lo fissa negli oc­chi e completa il verso di Omero a memoria. Ma, annota lo storico, sbaglia lie­vemente l’accento.
Nel laboratorio sotterra­neo del Palazzo d'Estate, l’imperatrice Zoe passa giornate intere fra fumi d’incenso e alambicchi, lon­tana dalla luce del sole, in compagnia della sorella Teodora, la cui mania è in­vece collezionare monete an­tiche.
Quando le due basilisse concedono udienza, la grande sala è gremita dai dignitari disposti a sca­glioni secondo ordine e ran­go. Al centro i due troni si collocano sulla medesima linea, solo, dalla parte del­la sorella minore, imper­cettibilmente inflessa. Nien­te è casuale nella cerimo­nia: nella taxis visiva, nel suo «ordine», si dimostra un assunto politico, giuri­dico, sacrale.


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