Meraviglie per ambasciatori
Lettere da Bisanzio
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«Gente viziosa e macerata dal peccato», riferisce Teodoro Prodromo, i costantinopolitani consideravano gli ospiti occidentali, spesso, se diplomatici, raggirati dalla cinica astuzia di funzionari e spie o depredati, se mercanti, nelle mescite degli angiporti lungo il Corno d’oro, rosseggianti di vino e di sangue. Ma all'interno della corte dell'imperatore la liturgia per il ricevimento degli ospiti stranieri si snodava in un rituale splendente di oro e dismalto, teatrale, sacrale: in un ordine assolto dalla materia corporea, espressione visiva dei dogmi astratti, esotici, esoterici dell'autocrazia di diritto divino.
Da uno di questi cerimoniali restò segnato a vita un diplomatico latino, il vescovo Liutprando da Cremona, inviato dal Papa, con il confratello Liutifredo, alla metà del X secolo presso la corte di Costantino VII Porfirogenito: il grande imperatore enciclopedista, letterato, architetto, pittore, l'autore del Libro delle cerimonie. Liutprando riportò il suo incontro con Costantinopoli e Costantino in un diario, l'Antapodosis o Restituzione, senza aver letto il quale perderemmo una delle più abbaglianti visioni di ciò che veramente doveva essere, per chi emergeva dal buio medioevo d’Occidente, laciviltà bizantina già in piena fioritura umanistica. Né comprenderemmo il senso di due meravigliose poesie del nostro secolo: Byzantium e Sailing to Byzantium di William Butler Yeats. «A Costantinopoli, poco lontano dal Palazzo», scrive Liutprando, «sorge una dimora di straordinaria grandezza e bellezza.
Magnaura la chiamano i Greci, però pronunciando la “u" col suono forte del digamma, così che quasi "magna avrà" giunge all'udito. In un modo a dir poco sorprendente, che non tarderò a descrivere. Costatino aveva ordinato che sia per gli ambasciatori spagnoli giunti poco prima di noi, sia per me e Liutifredo fosse fatta un allestimento all’interno. Davanti al trono dell’imperatore c’era un albero di bronzo completamente ricoperto d'oro e i suoi rami erano fitti di uccelli pure bulinati d’oro: emettevano suoni a seconda delle diverse specie, e certo arrivando pareva di udire diversi canti».
Secondo un grande storico dell’arte bizantina, André Grabar (di cui esce ora da Jaca Book Le vie della creazione nell’iconografia cristiana), questi automi provenivano da Baghdad. Ma la testimonianza del bizantino Michele Glica è esplicita: le macchine messe all’opera intorno al trono della Magnaura, detto «di Salomone», eremo state commissionate dal grande sovrano iconoclasta Teofilo a quel genio puro del IX secolo che fu Leone il Matematico, classicista, filosofo, scienziato, astrologo. Il progetto si sarebbe basato su originali risalenti addirittura a Erone di Alessandria. Poi gli automi sarebbero stati distrutti dal figlio di Teofilo, lo sconsiderato Michele III, per essere fatte ricostruire dal coltissimo Costantino agli orafi di corte.
«Quando non sarò più materia di natura / non prenderò una forma corporale, / simile a nulla che sia della natura, ma / a quanto hanno saputo fare gli orafi greci / d'oro battuto e smalti per tener desti / gli sbadigli di qualche imperatore; / e sarà che deposto su un ramo d’oro io canti / ai signori e alle dame di Bisanzio/ ciò che fu, ciò che è o sta per essere». Nel suo Quaderno di traduzioni Montale così rende i versi di Sailing to Byzantium di Yeats. Ma non conoscendo, come l’autore irlandese, né il testo di Liutprando, né quello parallelo del De cerimoniis stesso (Il 15 nell’editio princeps di Reiske), né la minima eco delta storia degli uccelli-automi della Magnaura, Montale perse forse qualcosa del senso.
A questo punto, sarà il lettore delle lettere da Bisanzio inviate da ospiti occidentali come Liutprando o Yeats a risolvere che cosa o come debba considerarsi l’uccello d’oro menzionato nella terza strofa della seconda poesia bizantina di Yeats, Byzantium, tralasciata da Montale: «Miracolo, uccello o manufatto d’oro, / miracolo più che uccello o manufatto d’oro, / piantato alla luce delle stelle sul suo ramo d’oro, / può come i galli di Ade cantare, / o dalla luna inasprito schernire forte/ nella gloria del metallo immutabile / l’uccello comune o il petalo / e ogni complessità di fango e sangue».