Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Meglio Maya o manichei?

Lettere da Bisanzio

24/09/1998 Silvia Ronchey

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Avvenire

Il viso minuscolo del re-elfo esce dalla corolla di una cal­la o di un’orchidea; sorge, grandissimo, dal giaguaro che è anche il Sole notturno; è lumaca nella chiocciola, muscolo della conchiglia, spunta dal guscio sotterra­neo della tartaruga, tartarouchos, ossia, anche per la civiltà greca, abitante del sottomondo; è uccello, pi­pistrello, falena, uno spiri­to animale molto caro e vi­cino ai potenti della terra; è ovviamente, serpente, il ri­vale che incarna, per Jung, la psiche inferiore, il primo deus otiosus.
Nella mostra veneziana dei Maya, a Palazzo Grassi, facce pietrificate: nero e arancione i colori della vita, verde quello della giadite che compone a mosaico le ma­schere dei morti; dunque la tinta dei fantasmi, quella con cui ritornano pallidi a visitare il mondo dei vivi. E rosso l’est, nero l’ovest, bian­co il nord, giallo il sud, ver­de il centro di tutte le cose, la fertilità, il cuore della terra­stufa da cui riemerge il viso urlante del re-animale-dio sacrificato e sacrificante.
Nella religione dei Maya non c’è il dualismo che il cri­stianesimo ha cresciuto nel suo terreno di coltura gno­stico e manicheo, e che fu perseguitato da Diocleziano, Costantino, Valentiniano I, Teodosio, ancora Giusti­niano; che fu avversato per secoli dopo Agostino dai pa­dri di Bisanzio, nel propa­garsi dell’estremismo dog­matico a pauliciani e bogomìli; e che fu molto te­muto dalla teolo­gia islamica, se in arabo la parola zindiq, "eretico", vuol dire "mani­cheo". Ne parla un libro di Melhem Chokr stampato nel ’93 a Damasco dall’Istituto francese di stu­di arabi.
Luce/ Tenebra, Bene/Ma­le, Dio/Materia, nettamen­te opposti e distinti: le spie­gazioni dell’enigma del ma­le nel mondo delle dottrine semitico-cristiane come nel­le religioni indoi­raniche sono so­stanzialmente equivalenti. Tutte ne promettono, qui sta forse il maggior rischio, una radicale so­luzione e reden­zione: in un al­dilà, per la mag­gior parte delle dottrine di derivazione giudaico-cristiana e per quelle zoroastriana e mitraica; in rari casi, come per il buddhismo, durante la vita, attraverso l’ascesi.
Per i Maya invece, e in ge­nere per tutti quelli che ten­diamo a chiamare pagani il male e il bene si assomiglia­no e avvincono strettamente così come la vita e la morte: sono due maschere specula­ri, solo impercettibilmente difformi. Il sapiente è anche demente, grazie agli alluci­nogeni e alle droghe; il sag­gio maestro è anche assassi­no e sacrificatore di giovani vittime; tutti sono assetati di sangue e insieme delicati artisti e sottili matematici. Ma non è forse davvero così?
Di fronte all’enigma del male del mondo, la religione apparentemente violenta e selvaggia dei Maya (ma, do­manderebbe qui Lévi-Strauss, che cosa è selvag­gio?) colloca il buono e giu­sto, il santo, nella mesco­lanza inseparabile degli elementi opposti, nell’ambi­valenza della vita aperta­mente riconosciuta, ratifi­cata e elevata a principio.
Tramanda il Popol Vuh, poema sacro ai Maya, che i Progenitori dissero: «Vi sa­ranno solo silenzio e immo­bilità sotto gli alberi e tra i cespugli? Conviene che d'ora in poi vi sia qualcuno a cu­stodirli». Il sottofondo di questa religione, spavento­sa o no, è una tolleranza ver­so la vita. Il paganesimo, ipersensibile al multiforme brulicare dei viventi, indul­gente verso l’oscurità di tut­ti gli esseri, attento alle zone sfumate e di passaggio tra le specie e i mondi o tra gli aspetti della psiche, rispar­mia la Natura dall’insoffe­renza cristiano-manichea.


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