Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Le molte anime del Cantico

Lettere da Bisanzio

21/01/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

A poco più di vent’anni il filo­sofo Origene, enfant prodige del platonismo alessandrino, si evirò. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione». Niente lo stac­cava dalle sue carte allineate come un solitario (ne scaturi­rono gli Exapla, la sua sinossi del Vecchio Testamento). Nulla doveva distoglierlo dai comparare e commentare il testo sa­cro. Per la tradizione cristiana l’autocastrazione di Origene, ispirata forse da un passo di Matteo, 19,12, fu un atto di ascetismo estremista, che molti anni dopo, insieme alle altre anomalie dogmatiche, gli valse l'inquisizione e la deposizione dal ministero ecclesiastico di Alessandria. Ma un altro estre­mismo, spirituale, provocava il suo furore interpretativo. Vo­leva sbarazzarsi totalmente della vita materiale, così da poter ripartorire, come aveva scritto san Paolo, il suo spirito.
Le Omelie sul Cantico dei Cantici, opera della maturità di Origene (disponibili nell’e­dizione della Fondazione Lo­renzo Valla a cura di Manlio Simonetti), sono uno dei libri più belli di quell’età lunghissi­ma, che si usa ancora chiama­re «decadenza», in cui la fine del mondo classico si trasfonde in Bisanzio, dove passerà, in undici secoli di rinascenza in rinascenza. È qui che l’occi­dente ha raccolto l’eredità del­ia ricerca greca sull’essere: at­traverso il platonismo cristia­no e la sua contrapposizione fra anima e corpo, fra metafo­ra e lettera, fra esoterismo e «annuncio». Nulla della nostra civiltà filosofica può esse­re compreso senza la chiave dell’in­cancellabile me­tafora escogitata allora da Origene esercitandosi sul più misterioso dei testi sacri.
Il Cantico è un’erma testua­le bifronte, che esalta un amo­re quanto mai fisico, profano, carnale, da una parte. Ma è già ai tempi di Origene soggetto, d’altra parte, e quasi per scommessa, alle più entusiastiche dissertazioni dei grandi cono­scitori della Bibbia, a partire da Rabbi Aqiba.È incluso d'altronde nel novero dei testi ispirati, nonostan­te o, anzi, per il suo carattere sicura­mente erotico.
È proprio questo il punto, perché sot­to la denominazione di «amore» la letteratura propriamente erotica e quella mistica sfumano da sempre l’una nell’altra, re­stando così vicine entrambe alla sfera del sacro. Origene sot­trasse al Cantico letteralità e fisicità, per accenderne in Un modo che nessuno aveva pri­ma osato l’erotismo metafori­co, utilizzandolo in un senso che gli studiosi moderni chia­mano psicologico. La spiritua­lizzazione del testo sacro mi­rava alla sua interiorizzazione e applicazione all’esperienza vissuta dell’uditore. Da buon platonico, Origene distinse il livello del mondo sensibile da quello del mondo intellegibile. Col bisturi della filologia neu­tralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un cer­to senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L'evirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu allora reale o simbolica? Sta di fatto che, per uno dei più fan­tasmagorici trompe l’oeil del­la letteratura universale, il Cantico con Origene perse de­finitivamente il suo chiaro e originario connotato realistico, di poema d’amore greco-ellenistico per diventare un'allego­ria dell’eros mistico, di quel­l’amore sofferente che sta in ogni atto dì ricerca, o tentativo di creazione, o impulso di unione. La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, se­condo l’interpretazione giu­daica, e non è solo la Chiesa, se­condo la versione cristiana vul­gata. È in primo luogo l’ani­ma, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con le Omelie sul Cantico di Origene il cristianesimo antico si è affiancato agli altri gran­di saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il «cerco e non trovo», che si applica a tutte le sfere della nostra indagine.


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