Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Basilio come Baudelaire

Lettere da Bisanzio

02/05/1998 Silvia Ronchey

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Avvenire

«Quando il mondo era più giovane di cinque secoli tut­ti gli eventi della vita ave­vano forme molto più mar­cate di ora», ha scritto Johan Huizinga nel primo capitolo dell'Autunno del Medioevo (ora ristampato nei Saggi Bur). «Fra dolo­re e gioia, fra calamità e fe­licità, il divario appariva più grande. Ogni stato d’a­nimo aveva ancora quel grado di immediatezza e di assolutezza che la gioia e il dolore hanno per lo spirito infantile».
Quando il mondo era più giovane di quindici secoli, tre meridiani più a est del medioevo descritto dallo sto­rico olandese, la stessa per­cezione della natura era condivisa dagli abitanti della Cappadocia, come te­stimoniano le nove omelie quaresimali sulla creazio­ne del mondo composte da un grande padre bizantino, Basilio di Cesarea (oggi di­sponibili nell’edizione del­la Fondazione Valla cura­ta da Mario Naldini). Quanto più gravi erano l’avversità e l’indigenza, tanto maggiore era la ca­pacità di godere del loro mi­tigarsi. Ai tempi di Bisan­zio gli uomini erano più vulnerabili dalla crudeltà della natura, ma anche più alla sua contemplazione estatica.
«La natura è un tempio dove colonne viventi / emet­tono a volte confuse parole; /l'uomo passa tra foreste di simboli / che lo osservano con sguardo fa­miliare», ha scrit­to Baudelaire in Corréspondances. L’in-Exhaemeron («sui sei giorni») di Basi­lio il Grande, ol­tre che un breviario di estetica, è un inno alla struttura poetica del cosmo, all’infinita trama di con­nessioni, corrispondenze e risonanze della natura creata, colta nell'alba del suo primo sole: «L’aria si faceva splendida tutt’intorno... in un attimo e quasi in un lampo che nessuno immaginerebbe più rapido».
La provincia d’Asia nel quar­to secolo, in cui visse Basilio, ap­pare come un’as­soluta meravi­glia. Un mare ancora «lucente, su cui regna profonda quiete, o a volte in­crespato in superficie da leg­gere brezze, trascolorante da porpora in azzurro», una terra che all’alba «in­dossa la sua veste di luce sfoggiando le infinite specie di piante», l’erba folta, le fertili distese ondeggianti di spighe, la rosa «in origine priva di spine». L’aria è pie­na di traiettorie d’uccelli, il globo, «immenso nella sua grandezza e nel suo peso, puntato su se stesso», è so­vrastato dal gigantesco cie­lo microasiatico gremito di astri e di dei, dei demoni del neoplatonismo, del rotean­te zodiaco dei Caldei. Senza le luci delle città, incontra­stato, domina le notti «lo spettacolo della luna», sotto il cui raggio ancora riposano i melanconici: «Il suo umore riempie abbondante gli spazi della loro testa».


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