Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Pari opportunità linguistiche non significano parità sessuale

01/02/1998 Silvia Ronchey

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Io Donna

Cara Fiorenza,

mentre le donne italiane hanno finalmente abbandonato i cortei folcloristici dell’8 marzo per "dedicare un fiore alle donne di Kabul", i giornali italiani disquisiscono sull'esistenza nel Corano di norme all’origine della prevaricazione grottesca e spietata dei talebani.
Solo Nicola Tranfaglia sulla Repubblica ha giustamente scritto che il Papa se la prende sì, con l’Afghanistan, ma nella Chiesa cattolica non c’è parità fra i sessi.
Nella società le donne sono oggetto di stupri e incesti quotidiani, come ci hanno mostrato i lugubri servizi televisivi della cosiddetta Festa della Donna.
In questa bella atmosfera, il più invidiabile regalo l’hanno avuto le donne francesi. Jospin ha annunciato che «femminilizzerà mestieri, gradi, funzioni, titoli»: con apposita circolare i ministeri sono invitati a eliminare il sessismo dal linguaggio ufficiale, a dire dunque "ministra" o “direttora". E Jospin, sperando d’ingraziarsi l’elettorato femminile, suggerisce di inserire tali, sublimi pari opportunità linguistiche nella Costituzione.
Una volta si diceva: «Fatti non parole».
La manovra di Jospin è irritante nella sua pomposa vacuità. Non solo: manca di rispetto dell’obiettiva condizione delle donne, perché esistono questioni ben più scottanti della desinenza del vocabolo "ministro". Ed è irrispettosa anche di un’antica e saggia tradizione linguistica.
Ci schieriamo dalla parte dei vegliardi dell’Académie Francaise che protestano.
La parola “filosofo" si declina identica al maschile e al femminile: nell’aggettivo greco "philosophos" non c’è distinzione tra questi due generi. Il cosiddetto maschile, negli appellativi filosofici e giuridici, è asessuale.


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