Nuova ignoranza. Il fascino della superficialità
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E’ un circolo di sapienti ed esperti del mondo antico ad affrontare un problema attuale come la Nuova Ignoranza: quella presunzione di sapere quando in realtà non si sa veramente, che è tipica della nostra cultura moderna, dominata dal mito del progresso e dall'arroganza verso il passato. Gli errori, i pregiudizi e gli ostacoli nella trasmissione del sapere, il difficile rapporto tra le conoscenze degli antichi e il Grande Archivio dei contemporanei sono i temi del convegno internazionale («Saperla più lunga: i moderni di fronte a teorie e pratiche degli antichi») che si apre oggi all'Università di Siena. Saranno trattati da classicisti italiani messi a confronto con antropologi francesi e americani, tra cui Brace Lincoln, successore di Mircea Eliade alla cattedra di Antropologia della Chicago University, Marlene Albert-Llorca, Daniel Fabre, Christian Bromberger. Intervistiamo l'ideatore e curatore del congresso, Maurizio Bettini, antichista, antropologo, saggista. Le deformazioni del sapere tradizionale della società contemporanea erano già al centro dei suoi Classici nell'età dell'indiscrezione, usciti da Einaudi, come i due volumi che appariranno nei prossimi mesi: i racconti Con i libri, dedicati alla lettura e alla scrittura, e Nascere, un saggio di antropologia storica sul mito.
Nell'«Odissea» che abbiamo visto in televisione gli dèi greci parlano in toni da telenovela. Nei best-sellers sull'Egitto di Jacq, Omero è spostato di quattro secoli per farlo incontrare con Ramsete. Eppure gli studiosi interpellati si dichiarano soddisfatti che il grande pubblico «almeno si faccia un'idea dell'antichità».
«Il concetto che "farsi un'idea" sia comunque un bene è molto meno accettabile di quanto possa sembrare a prima vista. La quantità di idee e conoscenze sbagliate che circolano nella nostra società è altissima e un intellettuale dovrebbe sentire sempre una responsabilità morale sulle idee. La cosa triste è che oggi esiste un mondo di studio molto solido sull'antichità, e il pubblico potrebbe anche sapere cosa veramente scrivevano e pensavano gli antichi, ma del mondo omerico o dell'Egitto trapela un'immagine stereotipa, adatta più alle necessità del ricevente che alla grandezza e bellezza dell'oggetto».
Il che delinea perfettamente la Nuova Ignoranza: un divario senza precedenti fra il progresso delle conoscenze e l'uso fatto dagli esperti, che finiscono per ignorarlo o tradirlo rivolgendosi al pubblico.
«Sì. Se Jacq è veramente, come dice, un egittologo, non dovrebbe scrivere quello che scrive. Ma è possibile che la quantità di conoscenze "vere" - o prodotte, per lo meno, in maniera assennata - sia ormai talmente alta che la gente comune ne sarebbe schiacciata. Dall'altro lato c'è anche il problema personale degli esperti. La solitaria casta sacerdotale degli studiosi custodi di queste conoscenze vive tuttavia in un mondo che privilegia e premia la popolarità. "Essere conosciuto da chi tu non conosci" - mi sembra questa oggi la definizione della "fama" - è una sensazione talmente forte da trascinare alcuni sacerdoti fuori del recinto, da farli spretare. E' una nuova forma di tradimento dell'intellettuale, completamente diversa dalla Trahison des clercs che cinquant'anni fa dava il titolo a un celebre libro di Julien Benda. Oggi la sirena seduttiva non è l'impegno politico ma la fama offerta dai media».
Asservendosi all'immaginazione della massa, antiquata e stereotipata, gli studiosi lasciano il pubblico solo: il pubblicò, in un certo senso, diviene maestro e allievo. Anche questo circolo vizioso è una caratteristica della Nuova Ignoranza?
«Certamente. Mi sembra anzi che questo fenomeno abbia molto a che fare con la nuova oralità in cui viviamo. La poesia e la letteratura orali vengono sempre create per un'occasione, favorendo la formazione di stereotipi che rispettano più le attese del destinatario che la libertà e l'originalità del destinatore. Nella nostra società si è passati da una cultura scritta, quindi elitaria, a una nuova oralità di massa. E' il principio della performance. Rischiamo di precipitare in una società culturale tutta fatta di performances. In questo modo la trasmissione del sapere diventa - per fare un gioco di parole - doppiamente "occasionale", e dunque deformata».
Questo è un tipo di Nuova Ignoranza: l'elevazione del pubblico a padrone della conoscenza. Ma c'è un altro tipo di Nuova Ignoranza: quella del presunto colto, che si inserisce nel vuoto lasciato dagli esperti producendo libri che vorrebbero apparire raffinati ma sono spesso pieni di errori. Come mai nessuno denuncia queste imposture?
«E' un atteggiamento che ha più radici. Dagli Anni 60 in poi si è scatenata una guerra al nozionismo. All'inizio era ampiamente giustificata: a scuola e nelle Università si veniva considerati "stupidi" o "intelligenti" se si sapevano o no certe nozioni, e non era giusto. Ma questo a lungo andare ha portato a un discredito della nozione in se stessa, che danneggia la nostra cultura. Un'altra causa del dilagare dell'errore è il divorzio tra il mondo dell'editoria, dei giornali e della televisione da un lato, e i centri del sapere dall'altro, e cioè l'Università e le istituzioni scientifiche. Probabilmente in Italia si sente la mancanza delle University Press, le grandi case editrici universitarie. Noi, al loro posto, abbiamo un'editoria accademica di puro archivio, libri che restano dentro l'Università e non circolano anche perché spesso sono scritti male, senza l'intenzione di comunicare veramente ma solo per produrre titoli da concorso. L'alternativa è un'editoria di massa sempre più controllata, che crea confusione nel pubblico; lo stesso editore può pubblicare una grande impresa editoriale come la collana della Fondazione Valla e contemporaneamente delle sciocchezze come i libri di Jacq».
Diceva Socrate: il guaio non è l'ignoranza, ma il credere di sapere. Che modo ha la società "colta" di trattare il passato?
«Di fronte a ogni fenomeno culturale l'antropologo dice: devo partire dal presupposto che non ne so nulla, prima di tutto me ne faccio spiegare il senso da chi lo vive, poi procederò con le mie interpretazioni. E' la regola elementare dell'antropologia. Nel caso dell'antropologia del mondo antico, a parlare devono essere in primo luogo i morti, le generazioni sepolte: dovremmo interrogare i documenti, i monumenti, i testi. Noi invece anziché interrogarlo violentiamo il patrimonio culturale antico. Del monumento crediamo di conoscere la destinazione, ma lo stravolgiamo continuamente. Del testo antico dichiariamo di fare buon uso, ma poi gli cambiamo il titolo per farlo suonare meglio, lo tagliamo se ci pare noioso. Credere di "saperla più lunga", la Nuova Ignoranza, è una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo»