Silvia Ronchey

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Noi e Bisanzio

L'impero di Bisanzio affondato dai Dogi

"Venezia e Bisanzio" di Donald M. Nicol

29/12/1990 Silvia Ronchey

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Quella di Venezia è la storia di un'antitesi rovinosa, che stringe nel nodo di pochi se­coli, dalla fine del Me­dioevo, gli elementi di un conflitto etico ol­treché storico, quasi di un duello allegori­co: l’oligarchia libera­le che contraddice il dispotismo teocratico; il potere del mercato in competizione con quello dell'ideologia.
Nel conflitto con Bisanzio. Ve­nezia incarna per molti versi la modernità. In antitesi all'immobilismo dello Stato orientale, l'attivismo dei Dogi si attiene a una visione economica e pra­gmatica dei fatti politici. Plurali­sta nelle istituzioni, almeno ri­spetto allo monarchie medioevali europee, la Repubblica combinò impresa di Stato e iniziativa pri­vata guadagnando nel Levante una ricchezza incommensurabi­le al numero degli abitanti. Come già nell'antica democrazia mer­cantile di Atene, ciò porta a un'alta valutazione dell'indivi­duo: in tempi e luoghi in cui le vite umane si sterminavano in massa, ogni cittadino di Venezia valeva migliaia di ducati, come dimostrano i riscatti pagati dalla Serenissima ai sultani turchi.
In antitesi alla modernità di Venezia. Bisanzio è il simbolo stesso della cultura antica e dell'antica visione del mondo. L'in­cendio turco vide perire, insieme con Costantinopoli e con le sue biblioteche, le ultime tracce di vita della classicità. Ma per mille anni a Bisanzio i classici erano rimasti presenti nel vasto circui­to della pubblica istruzione im­periale: non in piccoli circoli, ma nel quotidiano esercizio del lin­guaggio e della scrittura di una grande e plurietnica classe nota­bile. Antiche, o tardoantiche, erano le strutture economiche dell'impero, le sue forme di pro­duzione. A impedire lo sviluppo di un feudalesimo bizantino fu una precisa visione del ruolo del­lo Stato. Pochi sanno che a Bi­sanzio, in termini strettamente giuridici, non esisteva la pro­prietà privata. Dalle rive del Bo­sforo la civiltà bizantino presi­diò i confini del Mediterraneo mediando tra antichità e pro­gresso e tra Oriente e Occidente: come diranno i turchi, tra Rum e Rumelia.
La caduta di Bisanzio è secon­do alcuni storici la tragedia di Venezia, secondo altri la sua im­perdonabile colpa: di quest'avvi­so è Donald Nicol, massimo stu­dioso inglese del tardo impero bizantino. Nel suo libro su Vene­zia e Bisanzio uscito due anni fa a Cambridge e ora tradotto da Li­dia Porria, Nicol ripercorre la storia dei due stati dalle origini, nel quinto secolo, sino alla cata­strofe del 1453. La tesi di Nicol rispecchia l'ottica della bizantinistica, la quale sfrutta un nuo­vo e decisivo punto di osserva­zione del Medioevo. Nello studio di Nicol le fonti greche sono at­tinte di prima mano. Le notizie sui rapporti politici o culturali di Venezia e Bizanzio sono allinea­te in una piana e comprensibile diacronia, se pur non senza mi­nuzia e con lieve ingenuità nar­rativa («l'imperatore pensò»..), che peraltro è tipica della divul­gazione storica anglosassone.
In nome degli interessi mer­cantili veneziani Bisanzio fu progressivamente e deliberata­mente minata all'interno e pri­vata di una difesa esterna. A causa della guerra economica di Venezia con Genova l'impero fu indebolito noi suoi scali strategi­ci, rasi al suolo e resi inabitabili e indifendibili perché non servis­sero da approdo alle flotte con­correnti. Contemporaneamente la basileia fu destabilizzata da guerre civili e guerriglie finan­ziate e armate dalla medesima Serenissima. Mentre la fiotta del Turco cresceva, come scrivono gli antichi cronisti, «procedendo nel senso del sole», per l'impossi­bilità di armare navi proprie gli imperatori bizantini confermaro­no a Venezia privilegi commer­ciali che crescevano a ogni quin­quennio sia nelle interminabili trattative degli ambasciatori, sia nelle formidabili interpretazioni dei legali della Repubblica. Il pa­dre di Anna Comnena. Alessio I, aveva concesso ai veneziani i primi monopoli, le prime fran­chigie, perfino le mescite di vino lungo le rive occidentali del Cor­no d'Oro: in tre secoli un cre­scendo di violenze insanguinò quelle darsene. La commedia di Pantalone diviene tragedia: cade la maschera accattivante e bor­ghese e appare una maschera di orrore.

Vi è molto di sinistro nei resti dell'Impero commerciale che i veneziani, i Capitani del Golfo, i Duchi dell'Arcipelago, i Podestà di Nauplia. i governatori di Tino e Micono lasciarono alla poste­rità: tetre fortezze, porti fortifi­cati e prigioni con lo stemma del Leone di San Marco. Le bellezze artistiche accumulate nella lagu­na sono in fondo quelle di una bottega di usuraio. Se «nell'infame e satanico spirito del com­mercio» Baudelaire vedeva la prima maledizione della moder­nità, il comportamento di Vene­zia, lungo le pagine del libro di Nicol, non ricorda forse la stroz­zine di Roskol'nikov?
I veneziani, scrive Nicol, era­no capaci di mettere un prezzo anche alla Corona di Spine. Un cronista veneziano annota che l'ultimo imperatore di Bisanzio, quando morì nella mischia coi turchi, doveva ancora alla Sere­nissima diciassettemila hyperpyra. Narra un pellegrino russo che quando Manuele II si sposò a Santa Sofia, parato dei gioielli della corona, la basilica era pre­sidiata dagli emissari di Venezia perché quei gioielli non venisse­ro trafugati’ all'inizio della guer­ra civile esicasta le erano stati doti in pegno, a garanzia dei fi­nanziamenti forniti dalle banche della Repubblica. I sovrani Paleologhi si portarono dietro quel debito come una maledizione fi­no alla caduta di Costantinopoli. I gioielli della corona di Bisanzio sono ancora oggi conservati e ammirati a San Marco, cosi co­me le ricchezze trafugate duran­te la Quarta Crociata, gli ori e le reliquie, già nel Medioevo meta redditizia di pellegrinaggi: quan­te volte sarà stato ripagato quel debito, su cui l'usura dei Dogi impoverì l'impero dei dotti?
Non furono i turchi a far cade­re Bisanzio: l'impero che Mao­metto II raccolse era già ostaggio di una logica finanziaria estra­nea all'antica cultura imperiale. Mentre il popolo si ribellava con­tro lo colonia veneziana, il go­verno era costretto a subirne le esazioni economiche, ad accetta­re prestiti a tassi d'interesse sempre più alti: nella tragedia di Bisanzio, il profitto privato fu deus ex machina. Protagonista e antagonista recitarono sino in fondo le loro parti. Ogni partico­lare valutazione dei dogi fu certo sempre coerente, il loro generale pessimismo sempre giustificato. Ma l'insieme di quei che il loro operato sortì è definito da Nicol, con eufemismo anglosassone, «scarsamente credibile in un'o­pera di fantasia.»
Pacatamente, pagina dopo pa­gina, Nicol sottopone la politica di Venezia al suo atto d'accusa: allinea un'implacabile documen­tazione, enumera misfatti bellici e crimini d’onore. Quando i tur­chi assediarono Tessalonica, il governo veneziano obbligò la se­conda capitale dell'impero a re­sistere a oltranza, contro ogni realismo. La Serenissima aveva investito ingenti capitali in città e non voleva assolutamente per­derla: i figli dei greci dovevano morire di fame, pena l'arresto e la deportazione dei padri quando non lo tortura o la condanna a morte per tradimento. Ma al­lorché Tessalonica cadde e per tre giorni e tre notti subì il vendicativo saccheggio islamico, le navi in attesa nel porto permise­ro la fuga ai soli funzionari vene­ziani, non ai civili bizantini ster­minati a migliaia.
L’ultima crociata delle poten­ze europee contro il sultano, in­vocata da un'intera generazione d'intelluttuali, fu compromessa e fors'anche tradita da Venezia: nella battaglia di Varna i vene­ziani si lasciarono corrompere per aiutare i turchi nella traver­sata del Mar Nero: quando i po­chi cavalieri cristiani superstiti cercarono una via di scampo nessuna nave veneziana offrì lo­ro asilo: la Repubblica si riserva­va di stipulare accordi commer­ciali coi vincitori turchi. Quando infine Costantinopoli fu stretta d'assedio, la flotta del papa parti troppo tardi anche a causa del mercanteggiamento del Dogi su­gli accordi finanziari per armar­la ed equipaggiarla.
Dell’assedio di Costantinopoli narra, tra le altre, la cronaca del veneziano Barbaro, medico di bordo: una narrazione grandiosa di eroismo e quasi deliberato sa­crificio e suicidio di paladini ve­neziani. I Contarini e i Cornaro, i Mocenigo e i Dolfin tennero a lungo le porte delle mura; le navi dei mercanti cariche di balle di cotone e di lana si pararono di­nanzi al Corno d’Oro, ripararono le cupole d’oro dalle cannonato turche spioventi dal largo. Ma neanche di quest'unico, finale ri­scatto di Venezia si può stare si­curi. poiché i greci presenti non ci hanno tramandato la loro ver­sione: i greci, contadini e nobili, marinai e filosofi, rimasero in­trappolati nel Bosforo su life-boats troppo gremite per prende­re il largo, mentre pronta alla fu­ga la marina veneziana teneva semivuote le sue galere, cosi leg­gere «che non vi erano bastevoli marinai per issarne il veleggio».
Chi si salvò dei bizantini non lasciò scritte che poche strane frasi, come il grande storico Sfranze, o assenti preghiere co­me il patriarca Gennadio. Vale la pena di leggere, insieme con gli ultimi due capitoli del libro di Nicol, le testimonianze pubbli­cate da Pertusi nei due volumi della Fondazione Valla sulla Ca­duta di Costantinopoli: la voce dei greci si frantumò in versi e li­tanie di inni, descrisse visioni di arcangeli, riferì che sulle mura in fiamme l'imperatore era pie­trificato.
Se Venezia fu il parassita di Bi­sanzio, l'impero veneziano, vis­suto all'interno di quello bizanti­no, perì con la suo morto. La dis­soluzione fu rapida: capitolate in sequenza le megalopoli romèe di Tessalonica, Costantinopoli, Mistrà, Trebisonda, l'una sull'altra rovinarono come un castello di carte le teste di ponte venezia­ne nel Peloponneso, il ducato di Nasso, Creta. Le nuove rotte commerciali, aperte per con­trappasso dai genovesi ai regni europei, tolsero ai veneziani an­che i clienti. La Serenissima im­mersa nell’oro piombò in una carnevalesca e sinistra decaden­za.

 


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