Costantinopoli ultima fermata.
Fermor l’uomo che non riuscì a raccontare come va a finire
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Una notte del 1965 a Pucioasa, una piccola città del distretto di Dambovita in Romania, ebbe luogo un incontro clandestino ed emozionante. Un giovane inglese, un grande artista della vita che aveva da poco e tutto sommato casualmente deciso di dedicarsi alla scrittura, penetrò i confini della cortina di ferro per incontrare la donna che era stata il suo primo e grande amore: una principessa, all'epoca in cui nel suo castello, meno che ventenne, aveva vissuto per ben quattro anni, dal '35 al fatale '39, quando aveva dovuto lasciarla per lo scoppio della guerra. Dieci anni dopo, nel '49, la donna era stata sfrattata dalla tenuta di famiglia, espropriata di tutti i suoi beni e mandata al confino. Il giovane inglese non l'aveva mai rivista. Ma ora il regime rumeno aveva leggermente allentato la sua chiusura agli stranieri. Abbastanza da permettere a quell'uomo da sempre avventuroso di tentare di raggiungerla.
L'uomo era Patrick Leigh Fermor, bello, ricco e felice allo scoccare dei suoi quarant'anni, e quello che voleva dall'ormai sfiorita e diseredata erede dell'antichissima dinastia bizantina dei Cantacuzeni, ora confinata in una mansarda insieme alla sorella e al cognato, non era né amore né ospitalità. Era lì per recuperare un quaderno abbandonato vent'anni prima nel castello, che la donna, pur nella fretta convulsa dello sgombero, aveva gettato nell'unica valigia portata con sé: il Diario Verde.
Quel quaderno era un talismano: il quarto e ultimo dei diari su cui Fermor aveva annotato il mitico viaggio di formazione della sua adolescenza, che lo aveva condotto a piedi, diciottenne, dall'Olanda a Costantinopoli. Un viaggio breve, nel complesso, durato poco più di un anno, dal '33 alla fine del '34, che a partire dal '65 avrebbe dedicato tutto il resto della vita a tentare di ricostruire e descrivere. I primi due volumi, Tempo di regali e Fra i boschi e l'acqua, rispettivamente del '77 e dell'86, lo avrebbero reso famoso. Il terzo e ultimo, se l'autore avesse compiuto la trilogia, ne avrebbe probabilmente fatto il vertice della letteratura inglese di viaggio di tutti i tempi. Non è accaduto.
Il libro che ora esce in traduzione italiana (La strada interrotta, Adelphi) evidenzia fin dal titolo l'impossibilità che lo osteggia, ma ne fa anche un unicum forse ancora più prezioso: la testimonianza di uno scrittore che nella scelta tra vita e scrittura non ha mai optato interamente per l'una o per l'altra, ma le ha alternate con avidità, lasciando in bianco la parte di vita talmente vissuta da non poter essere, né durante né dopo, descritta.
Costantinopoli, la città delle città, la capitale bizantina, poi ottomana ma sempre erede della tradizione millenaria della rhomaiosyne, era la meta fin dall'inizio tracciata sulla tabula rasa del mondo da quell'adolescente approdato al culto di Bisanzio per virtuosismo ed eccentricità. Il conflitto con una lontana e inarrivabile figura paterna lo rendeva insieme depresso e insicuro, irrequieto e avventuroso fino alla mitomania. Oberato da un precoce dono per la scrittura, torturato da un temibile versatilità di talenti, diviso tra ambizioni contrastanti, ansia e perfezionismo avevano cristallizzato in lui «una pericolosa miscela di sofisticatezza e incoscienza» secondo il direttore del King's College di Canterbury.
Approdato a Londra, insofferente della folleggiante Bright Young People, recalcitrante al ruolo che la Ruling Class britannica gli destinava, afflitto da un «disprezzo per tutti che iniziava e finiva con un disprezzo per se stesso», aveva deciso di viaggiare a piedi, in totale povertà, con un bastone, uno zaino e le poesie di Orazio.
In un anno aveva camminato per ottocento chilometri attraverso le rovine di un mondo sul punto di disfarsi colto nel suo ultimo miracoloso momento di stasi e di grazia, un percorso quasi da sonnambulo sul crinale della storia, sull'orlo del precipitare dei grandi imperi che fino all'inizio del Novecento avevano presidiato, nel privilegio e nel sangue, la tradizione bizantina. Di quel viaggio attraverso Germania, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Turchia, Monte Athos, animato da quell'insieme di vocazione letteraria, ascetismo, estetismo, coraggio fisico, amore per la High Life e attrazione romantica per il popolo che avrebbe sempre caratterizzato la sua esistenza, il Diario Verde recuperato nel cuore della guerra fredda, nel fondo della buia provincia comunista, raccontava l'ultimo e più importante segmento: l'approdo.
Fin dall'inizio Fermor sapeva che il tratto finale, dalle Porte di Ferro del Danubio a Costantinopoli, sarebbe stato il più difficile da narrare. Aveva tentato per la prima volta nel '65 e ne era emerso un testo insoddisfacente, accantonato con il titolo provvisorio di A Youthful Journey. All'inizio degli anni Settanta aveva ripreso a scrivere il viaggio cominciando dalla parte meno importante. Solo la diminuzione dell'oggetto esorcizzava il demone della depressione e del caos. Fermor temeva l'espressione diretta, la scrittura frontale, come lo sguardo di una gorgone. I suoi manoscritti erano tormentati da incessanti ripensamenti e correzioni. Avvicinarsi al cuore dell'esperienza rendeva la sua scrittura tortuosa, sghemba, come metallo che si deformi vicino al fuoco.
Fermor se ne teneva cautamente alla larga esercitando l'arte bizantina della digressione e del dettaglio, giustapponendo tessere minute, aneddoti, descrizioni di caratteri e oggetti comuni, frammenti di apparente inessenzialità e frivolezza. Un mosaico contemporaneo, che fa l'eccezionalità della sua attentissima arte.
I curatori del volume postumo ci assicurano che Fermor non riuscì mai a collazionare il Diario Verde, il talismano che era andato a cercare fin nelle profondità dei Carpazi, con A Youthful Journey, la prima versione dell'ultima parte del viaggio. Avrebbe potuto, avendoli entrambi, ma non ci provò neppure. Li esaminò separatamente, fino alla morte aggiunse con mano tremante note a margine, in parte perentorie, in parte incomprensibili anche a chi lo conosceva bene. Non riuscì mai a descrivere Costantinopoli. La pagina e mezzo di fugaci appunti del Diario Verde è riportata nel libro con aperto imbarazzo e con una congettura: che a Fermor Istanbul non sia piaciuta.
Ci permettiamo di dissentire. Le mura di Costantinopoli sono state per Fermor «il punto più avanzato cui sia concesso spingersi» nel trasporre la vita in parole: il punto in cui la sua strada si è interrotta, come sempre quella di chi voglia, nella stessa vita, vivere e scrivere. Le pagine costantinopolitane del Diario Verde tracciano il contorno di una lacuna, significativa quanto il fluire denso e minuzioso della grafia che riempie il resto del codice. Ci fanno capire che il nevrotico, depresso, tormentato, sofisticato giovane fuggitivo inglese almeno in quei giorni, nella bellezza indescrivibile della città delle città, deve avere talmente vissuto da negare qualsiasi spazio alla scrittura.
Lo spazio della vita, nella sua scrittura, è rimasto vuoto come quello del capodanno del '35: «Dopo la baldoria dell'ultimo dell'anno ho dormito fino alle sei di sera, poi, svegliandomi, ho pensato che fosse l'alba. Mi sono rigirato e ho dormito fino alla mattina del 2 gennaio. Quindi il capodanno del 1935 per me sarà sempre uno spazio vuoto».