L'importanza di chiamarsi Ermete
Alchimia, oroscopi, botanica, medicina. Il primo volume delle opere di Trismegisto secondo Festugière. Ecco perchè il grande mistero parla ancora della nostra epoca
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“È vero senza menzogna, è certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, a compiere i miracoli dell’Uno”. Che l’inizio della Tavola Smeraldina, il più celebre dei testi ermetici, sia diventato il mantra di Dark, serie Netflix dagli altissimi ascolti, ultima deriva del filone sci-fi metafisico sempre più caro alla cultura di massa, non è per nulla strano. Anzi, l’epifania di Ermete Trismegisto era attesa con impazienza tra i grandi ritorni del terzo millennio.
Dopo la crisi delle ideologie secolari, delle fedi politiche otto e novecentesche; dopo i sussulti messianici confluiti nel main stream della New Age di fine secolo scorso; dopo il revival di fedi pervasive più o meno tradizionali, nell’alveo del cristianesimo o di culti orientali o di entrambi; dopo la massificazione del buddhismo, o delle sue versioni adattate ai vari sostrati religiosi e a loro avvinte, l’immaginario pop del vecchio mondo si è decantato in un sapienza occulta, composta di una molteplicità di frammenti di religioni e filosofie, dottrine mistiche, magiche, teurgiche, in un credo (di credere) diffuso che ci fa meditare o pregare scandendo formule — quand’anche provenienti dalle scritture giudeo-cristiane — non più intellegibili nei loro dettati, interrogare sogni e visioni, sincronicità e congiunzioni astrali, erbe e cristalli, inchinarci agli altari di chiese ormai deserte come all’ara domestica del gohonzon, celebrare una nuova religio individualistica in cui psicagogia e psicoanalisi, per lo più nella versione junghiana, inducono la percezione diffusa di un mistero non penetrabile dalla ragione, da ricercarsi nell’inconscio o in un dio immanente, ignoto, spesso identificato con la natura. I regni non umani tornano a essere sacri, la militanza animalista si fa lotta politica sotto l’egida antispecista, il veganesimo si fa culto tutelato dalla legge, ma anche le piante parlano, e gemono, dall’Amazzonia all’Africa, e nell’ascolto della terra una nuova pietà per l’ambiente cresce e si fa furore; si profila, apocalittica, l’estinzione, si protesta all’unisono con le frequenze inudibili del pianeta ferito. Concetti come il Deus sive Natura di Spinoza o l’Anima Mundi dei neoplatonici, ridotti e adattati, si tatuano nel pensiero così come la ruota del dharma sugli avambracci, a sorvegliare l’arcano mito di cui ognuno, nel proprio viaggio esistenziale, è unico eroe.
Ma questo, come tutto nel mondo, è già successo. Perché è ciò che accade quando una civiltà, una collettività, una società umana dominante, pur attraversando un’età materialmente felice, sperimentando un progresso tecnico e sociale, una giustizia diffusa e un benessere esteso, o anzi proprio per questo, entra in crisi. Si stanca del proprio pensiero, anzi, proprio del pensiero. E’ ciò che André-Jean Festugière, uno dei più grandi cervelli ecclesiastici del Novecento, se non il più grande, nel classico, poderoso, geniale saggio che nel 1942 premise alla sua monumentale edizione del Corpus Hermeticum (oggi provvidenzialmente tradotto da Moreno Neri nella prima versione italiana dell’opera, di cui è appena uscito, per Mimesis, il primo volume), chiama “logomachia”: la consapevolezza che, per dirla con Luciano, “tutte le ragioni servono solo a schernire la ragione” e il risultato ultimo di quell’esercizio protratto del pensiero, di quell’invenzione greca che chiamiamo filosofia, è inevitabilmente lo scetticismo, perché “o dobbiamo credere a tutti i filosofi, il che è ridicolo, o dobbiamo egualmente diffidarne”. In quell’apice di civiltà che fu il mondo tardoantico, dove anche la conoscenza del Bene Supremo naufragò nell’agnosticismo e Plinio il Vecchio poté identificare l’idea di dio col servizio reciproco da rendersi tra umani (Deus est mortali iuvare mortalem), in quella cosiddetta “decadenza” dell’impero romano grecizzato, che in realtà fu il tempo più felice dell’umanità secondo il giudizio indisputabile di Gibbon, ma anche nelle parole di Festugière, accadde che gli individui, davanti al sovrabbondare di una ragione che ormai mostrava a una massa di pensanti, e non solo a pochi filosofi, l’insuperabilità di ogni dilemma, l’irraggiungibilità del vero, la miseria dell’esistenza, i limiti della conoscenza, si rivolgessero all’irrazionale. Accadde che nello svanire o svilirsi della memoria, moltiplicata in troppi scritti, inaridita in troppe versioni della storia, cercassero l’autorità di un altro passato, si rivolgessero a ciò che era lontano nello spazio come nel tempo: a una sapienza immemoriale, imprecisata, che nasceva da un’originaria “rivelazione”, sorta nel lontano per definizione, il misterioso oriente. Perché quando la ragione è consunta e sono usurati i sentieri della dialettica si aspira a una verità discesa dall’alto, da accogliere senza uso di critica, senza discussione.
Ed ecco, emerge quella che Festugière chiama, senza spregio, anzi con sorridente devozione, “la filosofia dei barbari”. Intorno al 200 della nostra era il neoplatonico Numenio invocava i bramani dell’India insieme ai magi, ai cabalisti, agli ierofanti egizi e a quegli altri antichi “popoli di buona rinomanza” che procedendo nella direzione del sole avevano trasmesso, si riteneva, ai greci la loro sapienza, da Zoroastro a Buddha. Si immaginò che non solo Pitagora, né solo Platone, ma anche Talete, padre della matematica e primo dei sette sapienti, e Democrito, l’inventore della teoria degli atomi, i presocratici fondatori non solo del pensiero ma della riflessione scientifica greca, avessero tratto i loro saperi dall’oriente bramanico e dalle sue diramazioni iraniche, mesopotamiche, egizie. Delle discipline orientali si assunsero i costumi di vita. La dieta vegetariana, il rifiuto di ogni nutrimento animale (pura et sine animalibus coena), divenne un abito irrinunciabile, parte, per definizione, del corredo del saggio. Declinò il senso del collettivo e si affermò, derivata dalle pratiche dei gimnosofisti, la monotes, la “solitarietà”. Nell’onda mistica panteistica che come uno tsunami spazzò atri e colonne dei sistemi filosofici razionalistici, fu immessa la scienza. O la pseudoscienza: una scienza in cui la magia o comunque il mistero erano intrinsecamente confitti e disputavano il terreno a tutto quanto prodotto dalla ricerca razionale greca. Il progresso conoscitivo rifluì nell’aspirazione individualistica al dialogo personale con un’entità misteriosa e onnisciente, non importa se immanente o trascendente, dove la conoscenza — astronomica, fisica, fisiologica, psicologica — veniva porta in sogni e visioni.
In quei tempi felici si credeva che con la morte l’anima una volta uscita dal corpo andasse a dissolversi nell’Anima del Mondo. Ma già nel primo secolo qualcuno sosteneva la bizzarra teoria che persistesse invece l’anima individuale. Questo qualcuno si chiamava Ermete o Mercurio Egiziano, secondo Tertulliano, che nel De anima testimonia la strana dottrina, affacciatasi all’incirca al tempo della nascita di Gesù. Da questo Ermete egizio Platone avrebbe attinto la sua dottrina dell’immortalità dell’anima (cui praecipue Plato adsuevit). Ma non bastava il mito platonico narrato nel Fedone, né bastavano la reincarnazione pitagorica né le dottrine soteriologiche degli orfici. L’individualismo del mondo tardoantico reclamava una salvezza individuale: non solo una generica sopravvivenza dell’anima, ma anche una persistenza dell’io. Del resto, se Platone non era in fondo altro, secondo Numenio, che “un Mosè atticizzante”, prima di Mosè, e dei profeti e dei padri fondatori della rivelazione biblica, così come del pensiero filosofico fiorito in Attica, non poteva non esserci una fonte unica, un archetipo originario, un primo sapiente non titolare di una ricerca ma depositario di una rivelazione. Fu così che venne al mondo la figura di Hermes-Toth, invenzione recenziore pretesa antichissima, ibridazione esotica del dio-mago isiaco il cui soffio dà origine a tutte le cose — voce, parola, logos, incantamento demiurgico — e dell’alato Hermes greco, il cui nome già il Cratilo, non senza umorismo, aveva ricondotto al concetto di hermeneia, “interpretazione”, ossia al potere del discorso. Ermete Trismegisto, “tre volte grande”, non per una sua qualche prerogativa trinitaria, come a posteriori si è talvolta ipotizzato, ma in ossequio al superlativo egizio che si ottiene dalla ripetizione del positivo: megistos kai megistos kai megistos. E la dottrina di questo eroe triplice, “parola di dio, al tempo stesso creatore del mondo e profeta della creazione”, bene innestata nel melting pot religioso da cui stava emergendo la predicazione cristiana, sarebbe stata fin troppo facilmente riconosciuta, di lì a poco, dagli interpreti di quest’ultima, garante di un analogo tipo di salvezza ma dischiusa in piena luce, fuori dall’oscurità ermetica, nell’ecumene mediterranea.
Dei cosiddetti libri ermaici il primo volume dell’edizione Festugière allinea i trattati riguardanti l’astrologia, l’alchimia, le corrispondenze tra le virtù delle erbe, delle piante e degli aromi e il carosello dei pianeti. Composti non prima del I secolo, non dopo il II, probabilmente da greci migrati in Egitto, sono esposizioni didattiche e mistiche, eulogie destinate, come scrive Festugière, a soddisfare tutti i bisogni dell’anima, qualunque fossero. Uranografia e dottrina dell’universo, embriogenesi, escatologia, apocalittica costruiscono una medicina alternativa non solo della psiche ma anche del corpo, un vademecum teurgico dove i rhizotomes, gli erboristi, hanno status pari agli indovini e la parola oroscopo non designa altro che l’orologio cosmico. Era la caratteristica del tempo: la scienza non doveva più essere cercata per se stessa, la sua unica utilità era quella di condurre a dio, ed è perciò, come scrive Festugière, che queste opere pseudoscientifiche si presentano come misteri e impiegano il linguaggio dei misteri. Quel che conta è che tutto sia oscuro. E torniamo a Dark.