Ovidio, il poeta che sfidò l'imperatore
Gloria e caduta del primo vero intellettuale alle prese con il potere
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Nec sine te nec tecum vivere possum, “non posso vivere né con te né senza di te”. Interrogato su quale verso del passato avrebbe voluto scrivere, un grande poeta contemporaneo, Iosif Brodskij, ha indicato senza esitazione questo verso dell’Ovidio ancora elegiaco degli Amores. Nell’asciuttezza del latino si stringevano il dilemma comune a ogni essere umano viva a fondo l’esperienza dell’eros e il verdetto dei filosofi su quest’affezione dell’anima che la induce alla follia (manìa, nella definizione clinica dei greci) e nello stesso tempo è alimento indispensabile di ogni vita psichica. Nel moto del desiderio e nell’inattingibilità del suo oggetto, umano o inumano che sia, nell’io-Apollo che insegue invano la sua Dafne, risiedono insieme la contraddizione primaria della nostra specie, o forse dell’intera natura del mondo, la condizione della sua perpetuazione e il motore dell’universo. Un mistero fisico e metafisico che richiede l’iniziazione di un maestro. Di ogni livello di sapienza sull’amore Ovidio era, in effetti, maestro: magister amoris. Un magistero che produce, nella più nota delle sue opere, le Metamorfosi, la costruzione della storia universale di un mondo in cui tutto è instabile, cangiante, dinamico, nella perenne tensione, insieme umana e divina, verso l’inafferrabile. Un mondo, proprio per questo, senza morte, poiché in quest’epica, estetica e metafisica del desiderio “tutto cambia, nulla muore” (15, 165).
Non a caso il pur apparentemente ateo Ovidio, secondo cui “anche gli dèi, se è lecito dirlo, esistono solo grazie alla poesia” (Pont. 4, 8, 55), sarà molto amato dalla cultura cristiana. Gli amanuensi dei monasteri lo copiarono devotamente, il medioevo mistico adorò il suo cosmo anamorfico, Dante nella Commedia lo collocò tra i quattro Spiriti Magni e lo usò non solo come thesaurus mitologico ma come modello immaginifico e, spesso, stilistico, più di qualsiasi altro poeta antico. Perché Ovidio era il poeta naturale: Quod tentabat dicere versus erat, “qualunque cosa provassi a dire si disponeva in verso”, confesserà nei Tristia (4, 10, 26). A questo si deve la sua immensa fortuna umanistica, rinascimentale e barocca, fino a un entusiasta secolo dei Lumi, che come sempre travisando un po' l'antico riconobbe nell’Ars amatoria il proprio ideale libertino. Ma se quella di Ovidio è un'arte della ragione, un'ars cauta che insegna a usare il potenzialmente distruttivo rapporto d’amore per conoscere sé stessi, secondo il motto delfico che esplicitamente menziona, la visione del mondo femminile di questo ancien è ancora più prossima ai modernes. Ovidio, il più femminista dei poeti latini secondo la definizione di Pierre Grimal, “ha dato voce alla metà del genere umano sulla quale più volentieri si è fatto silenzio”.
Un progetto decennale dell’Università di Padova si è proposto di indagare la polimorfa figura di Ovidio in una ricerca trasversale che ha coinvolto per dieci anni studenti e studiosi di più discipline. Il risultato è la mostra Ovidio. Amori, miti ed altre storie, coordinata da Francesca Ghedini, che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale, il cui catalogo raccoglie i saggi dei massimi studiosi di Ovidio e del suo tempo — da Eugenio La Rocca a Paul Zanker, da Alessandro Barchiesi a Giampero Rosati, da Alessandro Schiesaro a Richard Tarrant — e il cui percorso allinea in un memorabile allestimento una pluralità abbagliante di opere d’arte antiche, medievali, moderne e contemporanee. Le installazioni di Joseph Kosuth, in cui i versi del poeta lampeggiano al neon, dialogano con gli affreschi di Pompei, la Venere di Botticelli con le sculture d’età imperiale, l’ossessiva iconografia del compianto di Venere su Adone con i rutilanti manoscritti miniati, i capolavori rinascimentali e barocchi con i reperti minuti della vita femminile nella Roma augustea, a documentare non solo l’universo artistico e intellettuale di Ovidio, ma il mondo che lo circondava e con ciò il suo secondo e forse ancora più importante magistero: quello politico.
Perché Ovidio non fu solo maestro d’amore. Lo fu anche di quella peculiare e forse unica azione con cui un intellettuale può contrastare, nel suo confronto col potere, l’inclinare di quest’ultimo verso una deriva autoritaria: la resistenza politica attraverso la letteratura. Ovidio fu testimone della prima delle rivoluzioni della storia occidentale, la cosiddetta rivoluzione romana, che portò Ottaviano, poi divenuto Augusto, a trasformare la repubblica in un impero rifondando in senso autoritario non solo la forma di governo, ma anche la vita stessa dei cittadini, dal calendario allo spazio urbano, dalle scelte religiose alla morale pubblica. Ovidio è il primo poeta antico a porsi in conflitto con queste forme di violazione della libertà dell’individuo e a perseguire la sua scrittura poetica con assoluta coerenza e in assoluta indifferenza se non in antitesi a quanto dettava il potere. A combattere quest’ultimo, quindi, nel suo nucleo profondo, e a venire condannato per questo. Ovidio è il primo poeta dissidente della storia e il primo letterato antico a porre in termini concreti, dolorosi e vissuti il tema del rapporto tra intellettuale e politica. Una compagna, la politica, con la quale l’intellettuale non può convivere, ma dalla quale non può neppure distaccarsi — nec sine te nec tecum.
L’aporia del verso degli Amores, nel caso di Brodskij, era applicabile anche, se non soprattutto, alla fuga del dissidente dalla patria comunista. Nei versi di Brodskij si specchiava un Ovidio alla rovescia, cacciato dai ghiacci della Scizia verso i marmi di Roma. Se l’iniziale addebito del regime sovietico al poeta novecentesco era stato quello di “fannullaggine”, le ragioni della relegatio che Augusto comminò a Ovidio, costringendolo a trascorrere il resto della sua vita nella remota Tomi, la rumena Costanza, sul Mar Nero, sono ancora meno chiare e costituiscono un enigma che per due millenni si è cercato di sciogliere. Nei Tristia, la principale opera dell’esilio (2, 207), Ovidio, come spiega nel saggio del catalogo Luigi Galasso, parla di due colpe: “Mi hanno perduto due colpe, un’opera poetica e un errore (carmen et error)”. Se il carmen è certamente l’Ars Amatoria, pubblicata nove anni prima, sull’error gli studiosi si sono lambiccati. Alcuni indizi affiorano dal tessuto cangiante, illusionistico, dei versi dell’esilio: “Vengo colpito perché senza saperlo ho visto un crimine,/ e la mia colpa è avere avuto gli occhi” (3,5, 49-50). E’ stata sottolineata la coincidenza con l’esilio “per comportamento immorale” di Giulia Minore, nipote di Augusto. Ma è riduttivo attribuire la condanna di Ovidio a un episodio di cronaca, a uno scandalo politico-sessuale pur legato alla casa regnante.
Se l’esametro di Virgilio è il verso piano delle certezze e delle unanimità, Ovidio teorizza il ritmo diseguale, il diverso solfeggio del distico. E' stato Cupìdo, il sovvertitore, a sottrarre un piede a ogni coppia di versi. Nella sua prosodia asimmetrica il distico elegiaco simboleggia l'ironia, l'irregolarità, l'incertezza. Il rapporto del poeta con l'arché, con il potere, ha la stessa implicazione anarchica. “Non siete andati a letto insieme per obbligo di legge: per voi ha vigore di legge solo Amore”, scrive Ovidio pericolosamente, rivendicando la superiorità dell'adulterio rispetto al vincolo del matrimonio. E' un’eversione della morale tradizionale e della giurisprudenza latina, ma in particolare della Lex Iulia de adulteriis. E' un'accezione dell'amore come sovversione. Ma non è certo Ovidio, è Augusto ad avere politicizzato gli amores dei cittadini romani, con un regime che per la prima volta nella storia di Roma entrava nelle loro alcove. Gli studiosi hanno dissezionato i versi dell’Ars Amatoria, delle Metamorfosi, dei Fasti, dei Tristia, per cercare di leggere fra le righe e accertare quanta opposizione si celasse davvero nella poesia di Ovidio. Alcuni saggi del catalogo cercano di assodarlo. Ma, come leggiamo in quello illuminante di Eugenio La Rocca, perfino la topografia dell’Ars amatoria è fatta per provocare il princeps: “È chiaro che Ovidio non denunci mai il sistema ideologico dominante, né contesti le leges Iuliae sulla morale, ma per un poeta alla moda e assai letto parlare di giochi d’amore tra i porticati degli edifici di Roma maggiormente connessi con la visione etica di Augusto — come ad esempio il Foro di Cesare — significava essere perlomeno imprudenti”.
Al poeta perseguitato da Augusto l'urto col potere non fruttò alcun premio Nobel, ma l'esilio “agli estremi confini del mondo conosciuto, su un Mar Nero turchese che a volte trascolora in biancori di ghiaccio”, come ha scritto Christoph Ransmayr nel Mondo estremo, il romanzo che ha anticipato il revival di Ovidio nella sensibilità contemporanea. Si ritrovò fra genti incomprensibili, nella morsa di un Nord Est che descrive con l'orrore di Poe: “Ho visto il grande mare fermarsi nel ghiaccio e una lastra viscida comprimere le acque. Ho visto i pesci fermarsi catturati dal ghiaccio, ma una parte di loro restava ancora viva”. Dal poeta bloccato ancora fremente, trasformato dall'odio di Augusto, fisicamente svanito da Roma e ridotto a voce narrante, l'esilio stesso è presentato come una metamorfosi: il rovesciarsi delle proprie fortune presso il principe, il mutamento che questo ha prodotto nel poeta, sono una malefica appendice al poema.
Prima di morire, Ovidio si ostinò ad affermare di non avere commesso alcun crimine: nullum crimen in carmine. Ma era la poesia stessa il delitto: il carmen era il crimen, nella sua libertà e incontrollabilità. Nel suo contrasto con il potere Ovidio insegna qualcosa che la modernità ha sperimentato in maniera drammatica tutte le volte che l'invenzione personale si è scontrata con l'ideologia politica: che la letteratura non è mai “innocente”.