Cleopa, Sofia e la crociata inesistente
Gli ultimi anni di Bisanzio attraverso la storia di due donne
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Nell'estate del 1420 una galera veneziana salpava dalla costa adriatica del l'Italia verso Bisanzio. A bordo c'erano due ragazze. Una era piccola, magra e aveva i capelli biondi. L’altra era alta, robusta e aveva i capelli rossi. Una era di Rimini, era figlia di un poeta, c si chiamava Cleope o Cleopha o Cleopa. L'altra veniva dalle colline del Monferrato e si chiamava Sofia.
Sofia era destinata in sposa al futuro basileus di Costantinopoli, Giovanni Vili. Era figlia del principe del Monferrato, a sua volta figlio del principe bizantino che un secolo prima aveva ricevuto in eredità quella piccola signoria: Teodoro Paleologo, figlio dell'imperatore Andronico II. Cleopa era stata promessa al fratello minore di Giovanni Vili, Teodoro II, despota di Morea. Era figlia di Malatesta dei Malatesti, noto come senatore di Roma, il titolo di cui lo aveva insignito Bonifacio IX per le sue spedizioni in difesa della Santa Sede, ma ancora più noto per i suoi sonetti e passato pertanto alla storia come Malatesta dei Sonetti. Era stata adottata da Carlo Malatesta, il capo di tutta l'illustre famiglia. Carlo era l'eminenza grigia della politica di Mantova c aveva molta influenza sul governo di Venezia. Per parte paterna Cleopa era imparentata coi Gonzaga, gli Sforza, i Montefeltro. Per parte materna era cugina del papa di Roma, Martino V, un Colonna. Le sue parentele erano ancora più strategiche di quelle di Sofìa.
Tutto era cominciato due anni prima, quando il concilio di Costanza aveva messo fine al grande scisma d’occidente eleggendo unico papa Martino V, Oddone Colonna appunto, anche grazie al decisivo appoggio della delegazione bizantina. Nello stesso 1418 il papa vincitore aveva espresso la sua gratitudine al basileus di Bisanzio Manuele Paleologo prendendosi a cuore il futuro dei suoi sei figli. L’8 aprile aveva spedito loro una lettera in cui li autorizzava a sposare delle cattoliche. Fu così che la composizione dello scisma d’occidente al concilio di Costanza costituì il punto d'avvio di un piano per la composizione dello scisma d'oriente, per il salvataggio dai turchi di una parte almeno dell'impero romano o “romeo” rifondato da Costantino e per il suo riassorbimento nell'orbita papale e romana. Questo piano si snoderà lungo il mezzo secolo che separa il matrimonio di Cleopa Malatesta, la cugina di Martino V, dalla crociata in Morea, successiva alla caduta di Costantinopoli, indetta da Pio II alla conferenza di Mantova ed effettivamente condotta dal cugino di Cleopa, Sigismondo Pandolfo Malatesta, tra il 1464 e il 1466.
Ma torniamo alle nostre viaggiatrici. La scelta di Sofìa di Monferrato come sposa di Giovanni VIII era quasi ovvia e rientrava, per così dire, nella routine dinastica dei Paleologhi. Cleopa invece era stata individuata personalmente da Martino V. Anche se era giovanissima, il papa la considerava una persona degna di fiducia, quasi una sua emissaria. Nella lettera in cui aveva concesso ai fratelli Paleologhi di sposare principesse latine aveva indicato una condizione: che fosse rispettata la loro fede di origine. Cleopa doveva testimoniare il rispetto di questa clausola, che non era certo un dettaglio ed era ben comprensibile alla luce del progetto politico di cui sopra. Da qualunque lato si guardasse la situazione di Bisanzio, appariva chiaro che il nodo da sciogliere era quello dei rapporti tra le chiese. Il problema dello scisma tra ortodossi e cattolici si trascinava da quattro secoli. Un braccio di ferro che aveva indebolito e continuava a indebolire l'impero.
Al concilio di Costanza il basileus Manuele II Paleologo, il rappresentante storico e tutore giuridico dell'eredità statale di Costantino, era stato personalmente invitato dall’imperatore Sigismondo con la promessa di indire una grande crociata antiturca se lo scisma d’occidente fosse stato composto. Di fatto, sia il papa sia i conciliaristi usavano la questione bizantina l’uno contro l’altro, come strumento di propaganda: l'unione delle chiese come è stato scritto, “era piuttosto la causa apparente che vera”: il papa desiderava sanare lo scisma d’oriente per mettere fine a quello dell’occidente, cioè per avere un successo contro i conciliaristi di Basilea, “i quali a loro volta”, come è stato scritto,“ per la stessa ragione avrebbero voluto attribuirsene il merito; l'imperatore greco se ne serviva sperando di ottenere aiuti contro i turchi che minacciavano la distruzione completa del suo impero”. Oltre ai due imperatori e al futuro papa Martino V era presente anche Carlo Malatesta, tra i principali sostenitori del concilio, che appoggiava, insieme a Venezia, papa Gregorio XII, un Correr. Sarebbe stato suo nipote, Gabriele Condulmer, salito al soglio col nome di Eugenio IV, a capeggiare il concilio di Ferrara Firenze, che insieme a quello di Basilea avrebbe proseguito quello di Costanza, nella nuova formula di governo per così dire federale della cristianità ecumenica, di cui la cogestione della crociata antiturca fra la curia pontificia, il concilio stesso e i sovrani laici avrebbe dovuto essere il banco di prova.
Nel frattempo a Cleopa Malatesta, ormai despina di Mistrà, sarebbero accadute molte cose, alcune entusiasmanti, altre incresciose. Fra le prime, l'accesso agli studi filosofici, l'iniziazione “ai più alti gradi" dell'accademia platonica diretta a Mistrà da Giorgio Gemisto Pletone (di cui faceva parte anche Bessarione, la mente del concilio di Firenze), la conversione, come testimonia in un suo scritto lo stesso Gemisto, “ai riti e al credo" dell'ortodossia. Fra le seconde, la rottura col papa suo cugino e la misteriosa, precocissima, improvvisa e senz'altro innaturale morte, probabilmente ordita dal partito antilatino della corte bizantina, con la possibile complicità della longa manus della curia stessa, per evitare la nascita di un erede maschio al trono bizantino, che difatti morendo Cleopa abortì.
La memoria della sua morte ma soprattutto della sua breve vita e della sua imperitura presenza nell’albero genealogico della casa imperiale bizantina rimarrà ben chiara sia durante i lavori del concilio di Firenze, sia negli anni successivi, quando progressive, strategiche alleanze matrimoniali con i Malatesta imparenteranno con il titolo imperiale bizantino le principali famiglie italiane: anzitutto gli Este, i Gonzaga e gli Sforza, che diverranno sostenitori del piano di salvataggio di Bisanzio in questi decenni ripreso e promosso dal grande filosofo, politico e diplomatico bizantino Bessarione, nel frattempo divenuto cardinale “orientale" della curia latina, ossia “talpa" dell'ortodossia presso i papi di Roma.
Sarà l’anno dopo la conclusione del concilio di Firenze, nel 1440, sempre sotto il pontificato di papa Condulmer, che Lorenzo Valla comporrà la sua declamatio “De falso eredita et ementita Constantini donatione’’, “La donazione di Costantino contraffatta e falsamente ritenuta vera”. Come i conciliaristi, Valla imbastiva la sua polemica antiromana sulla corruzione della Chiesa, che aveva abbandonato il suo originario impegno spirituale, contaminandosi con i vizi del potere politico. In realtà l'obiettivo di Valla era esso stesso, com'è ovvio, strettamente politico. La confutazione dell’atto di donazione e la polemica contro il potere temporale della Chiesa appoggiava la linea antipapale del suo signore, Alfonso d'Aragona, re di Napoli, nei confronti del papa Eugenio IV, alleato di Renato d’Angiò, aspirante al dominio nell'Italia meridionale.
Mai come nella prima metà del Quattrocento la scissione della Prima e della Seconda Roma, avvenuta dieci secoli prima con Costantino, e con lei la scissione del soglio di Pietro dal trono dei Cesari, era divenuta un problema così grande per il papa il cui potere temporale era sia disgregato e corrotto all’interno, sia contestato all'esterno dal movimento conciliarista e dagli interessi politici dei nuovi stati di cui si faceva portatore il nuovo pensiero laico umanistico. Esattamente un secolo dopo il giorno d’autunno del 1417 in cui Martino V era stato eletto unico pontefice di tutta la Chiesa nel Kaufhaus di Costanza, Lutero avrebbe del resto affisso le sue 95 tesi sul portale della chiesa del castello di Wittemberg.
Ma questo scenario, alla metà del Quattro cento, non era ancora intuibile. Anzi. Alla metà del Quattrocento, per un breve ma entusiasmante periodo, la parte più illuminata della curia di Roma, la parte amica dei greci e di Bisanzio e del loro “uomo all’avana" Bessarione, sperò che quella scissione avvenuta dieci secoli prima potesse sanarsi. E sperò di poter risolvere, con il riassorbimento nella Prima Roma dell'eredità dei Cesari che Costantino aveva trasmesso alla Seconda, i problemi esterni e interni della chiesa cattolica.
Il 29 maggio 1453, in un'orgia di distruzione e di sangue, Costantinopoli cadde in mano a sultano Mehmet II. La crociata del cardinale Cesarini, che era stato il prezzo politico dell'unione di Firenze, era fallita tragicamente nel 1444 con la carneficina di Varna. Un'intera generazione di capi era stata letteralmente spazzata via dalla storia e l’occidente, paralizzato dallo choc, non aveva più fatto nulla per salvare Costantinopoli. Ma a questo punto, alla metà quasi esatta del Quattrocento, la caduta di Costantinopoli aveva reso definitivamente vacante il titolo di Costantino. Recuperare la sovranità di Bisanzio significava a questo punto annettere all'occidente cattolico qualcosa di più che il fragile trono di un regno microasiatico balcanico ormai quasi completamente eroso dalla plurisecolare invasione turcomanna. In palio, per gli occidentali, c’era il titolo di imperatore dei romani, trasferito laggiù undici secoli prima dallo stesso Costantino sulla cui favoleggiata donazione, e dunque sulla liceità per il papato di costituirsi in dominio temporale, il pensiero umanistico aveva posto le sue riserve.
Fu cinque anni dopo la caduta di Costantinopoli che la decennale strategia di Bessarione trovò il più motivato oltreché spregiudicato degli sponsor nel grande umanista, già segretario dell'imperatore Federico III, che nel 1458 era diventato avventurosamente papa sotto il nome di Pio II. Quando convocò, subito dopo la sua elezione, la conferenza di Mantova, Enea Silvio Piccolomini mirava a una posta altissima: superare con un'unica magistrale mossa i due massimi problemi della politica medievale - a chi andasse tra i sovrani europei l'eredità dell'impero romano, su quale base si fondasse il potere temporale dei papi - riunendo la sovranità della prima e della seconda Roma in un'unica entità di diritto, la cui costituzione veniva, allora, data per certa.
Secondo gli intenti dichiarati dai documenti pubblici e dagli scritti privati di Enea Silvio, la rifondata basileia avrebbe avuto il suo centro ideale nella sede di Pietro e la sua testa di ponte strategica nel Peloponneso, funzionale ai disegni geopolitici degli stati coinvolti così come agli specifici interessi economici dei banchieri del papa, i veneziani. Per i quali in effetti la caduta di Costantinopoli non fu significativa, anzi, poté apparire quasi utile, ma che sarebbero stati danneggiati irreparabilmente dalla perdita dei presìdi in Morca. A riconquistare la Morca, non più certo Costantinopoli, mirava la crociata che Pio II bandì nel 1459 a Mantova.
La formula politica della Nuova Bisanzio, promossa con tanta risolutezza da Enea Silvio e prefigurata dall’intellettualità bizantina di cui era ambasciatore Bessarione, avrebbe dovuto essere molto diversa da quella della Bisanzio antica. Probabilmente, avrebbe avuto molto più a che fare con quel nuovo modello di stato, ispirato sia all'antichità della città-stato ellenica sia alle novità del rinascimento occidentale, che gli scritti politici di Gemisto/Pletone e della scuola di Mistrà avevano elaborato in maniera checché molti studiosi abbiano pensato niente affatto utopistica.
Nel Peloponneso avrebbe dovuto sorgere una nuova “sovranità cristiana", bizantina ma concorde con “le potenze cristiane" occidentali e sotto l'egida del papa. In questo senso, il decreto di unione del 1439 al concilio di Ferrara/Firenze era stato un episodio di vera Realpolitik: un atto di opportunità politica e infedeltà teologica, che avrebbe dovuto fornire però una piattaforma religiosa “mista" alla nuova enclave greco-cristiana nel dominio turco, ridotta ma politicamente determinante.
Il rinnegamento dell’unione di Firenze da parte del clero greco che sarebbe rimasto sotto il dominio turco era stato certo messo in conto, ma non costituiva un ostacolo significativo, se si guarda al vero fine del compromesso attuato nel concilio del 1439 da Bessarione con il papato. Che era riunire non solo le due chiese, ma finalmente le due sovranità in cui si era scisso per undici secoli l'impero romano: la tiara di Pietro e lo scettro di Costantino.
Il piano di Pio II, esplicitato ai leader europei da lui riuniti nel 1459 nella conferenza di Mantova, sarebbe fallito per una serie solo in parte prevedibile di circostanze negative. La crociata da lui bandita, alla cui testa avrebbe voluto mettersi personalmente “come un nuovo Goffredo di Buglione”, fu boicottata alla fine da tutti i suoi principali alleati politici. Ma una crociala ci fu. Anche se ad Ancona Finca Silvio Piccolo mini attese invano le navi di cui avrebbe dovuto prendere simbolicamente il comando, il progetto militare era stato comunque anticipato da un’avanguardia direttamente coinvolta nell'eredità dinastica dei Paleologhi e chiamata in causa da Pio II stesso.
Sigismondo Pandolfo Malatesta, l’avventuroso cugino di Cleopa, dopo essere stato accusato e condannato dal papa per eresia e bruciato in effigie sui gradini di San Pietro, in Campidoglio e in Campo de’ Fiori nella primavera del 1462, aveva ottenuto la riabilitazione a prezzo di gravi perdite territoriali il 13 novembre 1463. Nel febbraio dell’anno seguente aveva negoziato e avuto da Venezia, dietro interessamento di Bessarione, la nomina a capitano generale delle forze di terra della spedizione alla quale Enea Silvio intendeva partecipare di persona, dopo che Federico da Montefeltro si era rifiutato di assumerne il comando. La straordinaria opportunità di rivendicare i suoi diritti sulla Morea insieme a quelli della cristianità era stata offerta a Sigismondo, secondo la testimonianza della Cronaca di Gaspare Broglio, su proposta ufficiale del papa, che anche in questo aveva ascoltato, una volta di più, il consiglio di Bessarione.
Alla metà di marzo del 1464, cinque mesi prima della morte del pontefice, Sigismondo aveva impugnato in San Marco lo stendardo e il bastone di comando e a maggio, tornato a Rimini, aveva cominciato gli imbarchi. Da Rimini salparono prima sette marani e pochi giorni dopo altri sei, carichi di soldati fra i quali mille cavalieri. Altre milizie assoldate nel padovano furono imbarcate insieme ad altre quattrocento unità di cavalleria nei porti di Conche e Chioggia intorno alla metà di giugno. Delle truppe arruolate da Sigismondo arrivarono in Morea, secondo le fonti coeve, millequattrocento cavalli e cavalieri, quattrocento balestrieri a cavallo e trecento pedoni. Il signore di Rimini salpò su una galea per l’Albania la notte della simbolica ricorrenza di San Pietro e Paolo. Arrivò a Modonc il 13 luglio.
Secondo le intenzioni dei veneziani, che contemporaneamente avevano inviato in Morea altri condottieri con altre truppe di rinforzo, quando queste si fossero riunite con le residue milizie del defunto Bertoldo d’Este e con quelle partite in giugno dal basso Adriatico, Sigismondo avrebbe avuto ai suoi ordini circa tremila cavalieri e cinquemila pedoni. In realtà, tra fanti e cavalieri, Sigismondo poteva contare complessivamente su circa quattromila unità, mentre le forze turche erano enormemente superiori, come testimonia l’animato resoconto fornito dalle cronache.
Peraltro le truppe, almeno quelle già stanziate dai veneziani in Morea, erano malnutrite e scontente. La disciplina militare lasciava a desiderare e spesso i soldati si rifacevano con violenze e saccheggi sulla popolazione, che in quelle zone riconosceva l’autorità veneziana ma minacciava di ribellarsi e di passare alla parte turca. Scarseggiavano anche le munizioni, le armi e le macchine da guerra. Quando Sigismondo si rese conto della situazione, scrive Broglio, "se retrovò molto malcontento; et se così avesse stimato mai tal impresa non avria pigliata; non ostante dà poi che s’era condotto, deliberò di dimostrarvi la sua virtùde".
E lo fece. Con le sue truppe e con un primo scaglione veneziano Sigismondo riconquistò "el braccio di maina", cioè la penisola del Mani, e arrivò fino a Mistrà. La spedizione mascherata dei cavalieri per "le vie strecte et ardue (...) tenendo la via radente la montagna di Ministra”, la concertazione segreta con "la magnificentia del providitore” veneziano Andrea Dandolo di un'impresa tanto azzardata "che Magior dubio non se ne poteva havere", la conquista della migliore posizione sotto la rocca, effettuata nel cuore della notte perché il comandante turco fosse colto di sorpresa, sono raccontate dalla stessa penna di Sigismondo nella lettera inviata “dal campo contro la rocca di Misistra" il 16 agosto 1464 al doge di Venezia:
"Ce levamo de doe ore manti giorno et giongemo qui a la cità del Mixistra circha ale XXIII bore inanti che i cariagi fossero ponti con le redeguarde, era bene doe bore de nocte et in questa forma et cume questa astutia et sollicitudene glie inganamo et più cavalcò el nostro campo cum li cavali bardati che non potettero cavalcare i suoi cavalli gianitti”.
Sigismondo aveva già piazzato le bombarde ed era pronto a dare il via alla battaglia. Ma bisognava fare i conti con la cautela dei veneziani e con le loro eterne divisioni interne. Fu il senato della Serenissima, dove il partito interventista era finito rapidamente in minoranza, a non volere la presa di Mistrà: a volere, una volta di più, temporeggiare. Il provveditore Dandolo, incoraggiato al patteggiamento col nemico anche dai portavoce bizantini che temevano la strage dei civili e la distruzione della città, comunicò a Malatesta che al doge sarebbe stato più gradito "haverla cuncia che giusta ", scrive Sigismondo, "et cusì deliberai de fare et tollimo d'acordo, benché ali soldati nostri paresse uno stranio gioco a perdere tal ventura ".
L'assedio di Mistrà durò cosi, a dispetto di quanto previsto dal suo comandante, varie settimane, con le truppe occidentali costrette ad arretrare leggermente dopo l'arrivo dei congrui rinforzi turchi agli ordini di Omar bey, il gran Marabeo delle fonti, acquartierate in un campo ben trincerato con terrapieni e fossati ed altri ostacoli e sbarre, che i nemici non riuscirono mai né a piegare né a indebolire. Ci riuscirono, però, altri fattori, interni ed esterni, prevedibili e non. Già nella lettera al doge del 16 agosto Sigismondo lamentava che il suo esercito "de dinari et per malatie et per cavalli morti se ritrova in male asetto". Oltre alla preponderanza numerica delle forze del sultano, l'ambiguità e i continui ripensamenti dei veneziani ebbero come risultato la totale mancanza di rifornimenti e con ciò il sempre più grave scarseggiare delle munizioni, la fine delle vettovaglie, la carestia, e di conseguenza le progressive defezioni dei crociati stranieri e il peggiorare dell'epidemia di febbre.
Fu quest'ultima a indurre Malatesta alla ritirata.
Gli stessi funzionari veneziani della Morea ammisero le loro inadempienze, e la volubilità e l'avarizia del loro governo. Ma il fattore più grave, quello decisivo, fu, come spesso nella storia, il più casuale: il clima, piovoso e tempestoso come non mai in uno scorcio d'estate nel Peloponneso.
La ritirata avvenne sotto i temporali, attraverso vie “incredibili e “disconcie”. I soldati fino ad allora risparmiati dalla malaria morirono di fatica e di freddo oltreché di fame. Anche Sigismondo si ammalò, ma riuscì con il resto dei suoi a riparare a Modone.
La sola conquista dell'eredità bizantina che la storia registra, nella crociata di Sigismondo, fu puramente simbolica: quella delle spoglie di Giorgio Gemisto Pletone, che Sigismondo era riuscito a far portare in Italia prima del suo ritorno, accompagnate dai discendenti del filosofo, perché fossero deposte nel tempio malatestiano di Rimini, dove tuttora riposano. Mentre quelle di Cleopa Malatesta sono tuttora conservate a Mistrà.