Jünger sulle scogliere del Novecento
La vita, il tempo, gli ideale giovanili: parla il grande scrittore tedesco che compie cent'anni
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Sotto un sole ghiacciato piove nevischio. Il maniero degli Stauffenberg ha insegne bianche e blu, le stesse di Klaus von Stauffenberg, capo del complotto contro Hitler, nel '44. Jùnger vi partecipò e tra i militari fu l'unico superstite. «Lasciate stare Jùnger», disse Hitler. Anche il comunista Bertolt Brecht, al ritorno dagli Stati Uniti dopo la caduta del nazismo, disse la stessa frase: «Lasciate stare Jùnger». Da allora lontano dalla politica, sta ancora qui, nell'antica foresteria del maniero. Anche Jùnger è antico. Era all'università di Heidelberg negli Anni Dieci. Ha combattuto entrambe le guerre mondiali, ha assistito a nascita e morte delle due ideologie totalitarie del secolo, nazismo e comunismo. Da entrambi gli schieramenti nella grande guerra civile europea Jùnger sembra aver goduto di quella stessa immunità e invulnerabilità che anche il tempo, secondo apparenza, gli ha garantito. Su uno scaffale sta l'elmetto della battaglia sulla Somme. Indica il foro del proiettile. Già allora avrebbe dovuto essere morto. Ma dice: «Non bisognerebbe vivere così a lungo...». E ci mostra lo scaffale con i ricordi dei due figli morti. Di Alexander, scomparso sessantenne (lo scorso giovedì sarebbe caduto il compleanno). Però, diciamo, ha visto due volte la cometa. «Nella vita - risponde, - ho fatto tutto due volte. Due volte la cometa, due volte la guerra, due mogli, due figli...».
Sotto la famosa collezione di clessidre stanno i volumi dei padri della Chiesa. Leggo i titoli sulle antiche costole: Agostino, Girolamo, Crisostomo, Eusebio. Parliamo di edizioni, la prima che io conosca in uso per la Storia ecclesiastica di Eusebio è troppo recente per lui: «No - si scusa -, non ho l'edizione di Schwartz, possiedo la precedente». Nella luce pomeridiana, che piove dalle finestre piombate, stanno l'immensa collezione di coleotteri, animali imbalsamati, una tartaruga marina, un'iguana, conchiglie. Con i grandi polpastrelli picchia sul guscio della tartaruga: «E' vera, ma è vuota».
Non abbiamo dubbi che lei, Ernst Jùnger, abbia l'esatta idea della durata di un minuto. Possiamo mettere sul tavolo una delle sue clessidre, per misurarlo?
«Certamente. Ora mia moglie ne porterà una (Frau Liselotte si alza a prenderla e gliela consegna), Questa è una clessidra veneziana del diciassettesimo secolo. Doveva appartenere a una cortigiana, il tempo è molto breve».
Perché desidera che le sue interviste, se le concede, siano registrate dalla televisione?
«Attribuisco alla televisione un significato magico. Ad esempio, può evocare i morti: uomini del secolo scorso. (Ride) Inoltre, la tridimensionalità rafforza ulteriormente la valenza magica di certe situazioni: pensi all'atmosfera fumosa di un bar, per esempio».
Crede che la televisione possa avere una finalità positiva per l'individuo?
«Se dovessi negarlo, contraddirei la maggioranza delle persone. Credo che per loro la televisione sia molto importante. Una volta un prete mi disse: la radio vale dieci volte il giornale. La televisione dieci volte la radio. Mi lascio intervistare solo dalla televisione: restituisce la magia delle situazioni. Forse, per descrivere l'individuo, un film bianco e nero è molto più potente, così come ad esempio il vecchio dagherrotipo, nella descrizione dell'individuo, era insuperabile. La persona ritratta doveva sottoporsi a una lunga seduta, da cui emergeva qualcos'altro, la pellicola impressionata. Dal dagherrotipo la pellicola reagiva mediante sostanze organiche, e queste documentavano qualcosa di organico, l'individuo fotografato. Oggi verrebbe ripreso con il flash, che restituisce solo un centesimo della personalità».
Giriamo la clessidra. Può darci una definizione della cultura di massa?
«Non ho un'idea molto incoraggiante di come si esprimerà la cultura di domani. Sono d'accordo con Hòlderlin, quando scriveva nella sua lirica Brot und Wein "viene il Tempo dei Forti e il poeta deve addormentarsi", il che per me significa che la cultura è sfavorita, mentre la tecnica è avvantaggiata. I fatti divengono più importanti di ciò che si è pensato o poetato».
Ha presente la scatola nera degli aerei? La Germania è l'aereo precipitato: una Germania, il mito al quale lei ha creduto da giovane e che non si è realizzato, finendo distrutto con l'esperienza hitleriana o anzi con il fallito complotto contro Hitler, di cui lei fu l'unico superstite. Lei è dunque per noi la scatola nera di quell'aereo. (Annuisce ridendo). In cosa consisteva per lei giovane il mito tedesco?
«Ogni nazione ha i suoi miti e ogni nazione ha anche il suo Eracle. Zalmoxis era l'Eracle di una piccola nazione scita. Il mio amico Mircea Eliade pubblicava una rivista intitolata Zalmoxis. Ah, i miti dei greci e dei romani! Ma noi non siamo più in un'epoca mitica e chi cerca di riportare il mito nel la nostra civiltà ha sbagliato luogo. Io ho cercato di considerare l’Operaio, in una chiave neoplatonica. Personaggi molto intelligenti come Cari Schmitt e Oswald Spengler hanno sostenuto che io volessi cantare le lodi del proletariato. Non è affatto vero. Su questo punto sono d'accordo con Nietzsche: l'Operaio, anche se è una grande figura, ha poco a che fare con il socialismo e con Marx».
A proposito di miti, nei suoi scritti ricorre l'immagine di Enea che con i suoi Penati abbandona Troia in fiamme. E penso inoltre alla figura dell'Anarca, «l'uomo che vuole aprire per sé una radura nella selva dell'omologazione universale». Vi sono affinità tra la figura dell'Anarca e lo stoico antico?
«Sì. Qui devo molto all'influsso di mio fratello Friedrich Georg, che fra l'altro ha scritto un libro sui miti greci e ha fatto una traduzione dell'Odissea. L'Anarca, che compare un po' ovunque nella mia opera, non proviene solo dall'Unico di Stirner, anche se la somiglianza è grande. Ma Stirner è un anarchico, e l'anarchico è altra cosa dall'Anarca. L'anarchico vuole uccidere e vuole cambiare il mondo. L'Anarca invece potrebbe fare il contabile e seguire in tutto e per tutto la norma. Ma la sera, quando si ritrova nella sua cella di studio, fa quel che vuole. Non è vero? E' una bella differenza».
Ha accennato a suo fratello Friedrich Georg, il poeta. Con lui nel 1930 ha trascorso una vacanza sulla costa dalmata, che ha narrato nel suo «Dalma tinis cher Aufenthalt».
«Mio fratello ed io l'abbiamo scritto insieme».
Un passo di questo scritto racconta di quando nuotavate molto a largo, e lei si tuffava a bere quell'acqua seguendo un consiglio di Ippocrate. Ha conservato questo rapporto antico col mare, nel resto della sua vita?
«Posso dire di sì. E ho sempre preferito il Mediterraneo al Mare del Nord. Soprattutto in Sardegna, dove una volta stavo per affogare... Ho pensato che fosse la fine. Ho visto delle torri saracene e ho pensato: questa è l'ultima cosa che scorgo. Vede, io ho una strana capacità di prendere le distanze da me stesso. In quell'occasione mi sono visto, ancora una volta, dall'alto. Del resto, nei momenti di pericolo, è una facoltà umana nota quella di vedersi improvvisamente dall'alto. A me è successo altre due volte nella vita. La prima quando ero piccolo. Sono stato investito da una macchina e mi sono visto schiacciare, divenire nulla. E un'altra volta, quando sono andato a sbattere con la mia auto. In quei momenti, ero veramente molto in alto. In effetti, possiamo dire che è un bell'inizio, per il trapasso...».
Può definirci il suo rapporto col mare?
«Vediamo un pò. Anzitutto, il significato farmacopeico. Ogni volta che vado al mare bevo regolarmente una boccata d'acqua salata. Dopotutto, i fiumi si gettano nel mare e ciò che di medicamentoso portano - i minerali, le piante e tutto quello che gli animali hanno da offrire si unisce al mare e deve essere contenuto nella sua acqua. Diciamo che una combinazione molto più debole è un buon Bordeaux, dentro il quale pure vi sono molte forze, che giovano alla salute. Quel che ho detto corrisponde anche a un verso di Goethe, che sostiene che tutto viene dal mare, che il mare contiene ogni cosa: "oceano, concedici la tua sobria opera". Inoltre, sono affascinato dalle onde. L'onda non è solo acqua che viene in avanti, ma un puro trasferimento di forza, e che vi sia qualcosa dietro lo si vede dalla risacca, dove quella forza appare. Di questo tema mi sono occupato nel mio recente libro Die Schere, "La forbice"».
La sua casa, con i suoi libri, le sue clessidre, le sue collezioni naturalistiche, fa pensare a quella di Goethe a Weimar.
«Eh, sì. Manteniamo una certa cultura. (Sorride.) Non è vero? Non durerà molto a lungo, qui. C'è una poesia della vecchiaia di Goethe, dedicata a Wieland: "C'è ancora un uccello libero...". Il punto è questo: ancora per quanto?».
Ha a che fare con i versi di Goethe la figura del Forestiero nelle «Scogliere di marmo»?
«Certo! Mia moglie potrebbe dirne molto di più, perché ha curato l'ultima edizione dall'editore Kotta. Ma non parla volentieri, non le piace mettersi in luce». (Frau Liselotte sorride).
Per noi lei non dovrebbe in realtà considerarsi un contemporaneo. Lo è per una specie di licenza biologica, ma parlare con lei è come parlare a un classico. E' come chiedere a Seneca del suo rapporto con Nerone. Vorremmo chiederle il ricordo, brevissimo, di una persona che pensiamo lei abbia conosciuto. Se lei è Seneca...
(Ridendo). «Ah, sì...».
Vuole parlarci del suo Nerone?
«Il nostro Nerone è una figura tragica. Troppo perfino per un attore. Ricordo che Guglielmo II era stato paragonato a Caligola. Ma io trovo che in materia di crudeltà Guglielmo II era in una posizione ben più arretrata del nostro Nerone. Ma Nerone aveva un gran talento di attore. Il Nerone antico recitava le proprie poesie nell'anfiteatro...».
Lasciamo stare il Nerone antico. Parliamo di Kniebolo [il nome in codice attribuito da Jùnger a Hitler]...
«Nerone-Kniebolo?».
Un breve ricordo. Qualche incontro con Kniebolo?
«Non l'ho mai conosciuto personalmente. Quand'era ancora uno sconosciuto, il capo di una delle tante sette che c'erano allora. Strasser ne aveva una, Niekisch un'altra, e vi era anche un'altra dottrina, doveva essere quando vivevo a Lipsia. Dove, quando, in che anno? 1926? Diciamo '25, '24. Un giorno Kniebolo mi chiese un appuntamento tramite Hess, ma non ebbi tempo. Lo ritenevo uno di quei piccoli settari che bazzicavano attorno e così grazie a Dio l'incontro non ci fu».
Qual è il suo rapporto con la musica?
«Rimpiango di essere privo di una forte musicalità. Davanti a una fuga di Bach, non capisco nulla. Un'eccezione: Mozart. Inevitabile. Eh, no: si può essere immusicali quanto si vuole, eppure... Mozart ha una presa immediata, che trascende la musicalità. Comunque il Suono della Natura sa dirmi molto di più. Il rumore, lo stormire della foresta o il mormorio di una piccola cascata hanno qualcosa di immediatamente romantico, che l'uomo avverte, che può comunicare più della lingua umana, se lo si riesce a distinguere, a decifrare. Uno riesce ad avere un buon orecchio per il suono della natura e a rimanere sordo alla musicalità più alta. Si rende conto? E' molto strano».
Vi è un brano particolare, una qualche aria o una qualche canzone che le evoca un momento preciso della sua vita da giovane, della vita della Germania?
«Ricordo bene le canzoni popolari. E anche certe canzoni che hanno una componente ritmica. Una buona canzone popolare è ad esempio "Alla fontana fuori porta". Viene spontanea alle labbra. La canto spesso, alla mattina».