Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda
Qual’è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa domanda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «1161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la patristica greca». Risposta provocatoria, se vogliamo, tuttavia assolutamente comprensibile per una bizantinista che sa come in quelle pagine scritte nella solitudine abbacinante dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandria, non è testimoniata soltanto la gigantesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpretare e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vicino Oriente. Del resto lei stessa — curiosa di tutto, ansiosa di confrontare le tradizioni con le tradizioni, la storia con la storia, il pensiero con il pensiero, e naturalmente il passato con il presente — è una studiosa irrequieta che non ama fermarsi nel suo orto.
Questo, da bizantinista quale è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mistici islamici, di incrociare Gesù e Buddha, Dioniso e Agostino, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, Bisanzio e l’Occidente, le eresie e i vangeli gnostici, l'iconoclastia e Florenskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticare Elémire Zolla e Montale. E’ il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) — che giustamente, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto — ne è la manifestazione immediata e affascinante.
Trasportato dalla medesima irrequietezza e dalla medesima curiosità di chi lo ha scritto, il lettore attraversa «la bellezza quasi intollerabile del Sinai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sacralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazione tra umano e divino»; penetra nei sotterranei del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall'India vedica» per scoprire, insieme alle coincidenze delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvivenza dell’anima, ma nella resurrezione della carne; dalle mura di Costantinopoli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, contempla la falce di luna che il 24 maggio 1453,5 notti prima che la città fosse conquistata dai turchi, apparve nell'aria «senza nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell'infrangersi improvviso delle leggi e delle abitudini che regolano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, conscio e inconscio, dualità e cosmo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificata di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il mistico come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».
Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabile, non rappresentabile — eppure rappresentabile — fra l’umano e il divino, è il filo conduttore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale sommersa. Più che altrove, Silvia Ronchey Io approfondisce nel breve saggio contenuto nel volume e intitolato A mia immagine, nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle icone. Ogni rappresentazione del volto che voglia essere figurativa — dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey — è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensione, ci avvicina all’enigma dell'essere», insomma ci trasporta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardandoci in quella fissità irreale, lentamente ci fanno comprendere come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alterna all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come — vorremmo aggiungere — accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrivere il suo volto.