Piero e il sogno di Bessarione
Non è che un piccolo dipinto, a lungo ignorato e riscoperto, all’inizio dall’Ottocento, nella sacrestia del duomo di Urbino, da un tedesco, Johann David Passavant, pittore senza genio ma viaggiatore che sapeva usare gli occhi. Una tavola su legno di 58,4 per 81,5 centimetri, che mostra sullo sfondo un Cristo flagellato davanti a un impassibile Pilato e tre gentiluomini in primo piano. Una composizione malinconica e inusuale, nella quale sir Charles Lock Eastlake, un altro viaggiatore eccellente a caccia di capolavori italiani, a metà dell’Ottocento ravvisò “qualcosa di africano”. Non ritenne però di doverla acquistare, sebbene gli fosse stata offerta a un prezzo vantaggioso.
Poi, in capo a mezzo secolo, la Flagellazione di Piero della Francesca, oggi gemma della Galleria delle Marche di Urbino, sarebbe stata accolta nel pantheon dei capolavori assoluti dell’arte rinascimentale e di tutti i tempi, anche grazie alla lettura innamorata che ne fece, nel 1911, il critico Adolfo Venturi. Da allora, è stata e continua a essere la protagonista di una delle più lunghe e accanite dispute tra studiosi, su un terreno di combattimento che sta a metà tra la storia e la storia dell’arte. Una diatriba spesso accorata, degna dell’emozione che quella tavola provoca in chi la osserva, e degna della densità e della complessità dei significati che in essa trovano espressione. E che appaiono come un rompicapo, un mosaico nel quale manca sempre il modo di sistemare l’ultima tessera. Di quella disputa, ma soprattutto del mondo e del secolo nel quale la tavola di Piero della Francesca fu commissionata e composta, racconta, dando la propria personale ma assai credibile soluzione del mistero, la bizantinista Silvia Ronchey. Autrice di un libro importante e ricchissimo, frutto di otto anni di ricerche, comparazioni e studi serrati, intitolato “L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro” (Rizzoli, 540 pagine, 21 euro).
Al Foglio, Silvia Ronchey spiega innanzitutto perché anche lei è stata catturata dalla malia della Flagellazione. Una malia che nasce dall’inquietudine, da una sensazione di sospensione e di lutto, “perché il quadro di Piero è un quadro luttuoso. L’impressione che comunica è di paralisi, d’impossibilità di agire sul reale. E’ il lutto dell’intellettuale che sa che non riuscirà a modificare la realtà, a incidere davvero nella politica, ma nello stesso tempo non rinuncia ad agire”. Il lutto di cui parla la Ronchey è quello per la perdita di Bisanzio, caduta in mano turca il 29 maggio del 1453 (la tavola di Piero è del 1459-60), mentre l’azione vagheggiata è l’avvio di una crociata che doveva riportare sul trono di Costantinopoli l’ultimo dei Paleologhi: Tommaso, l’ultimo porfirogenito, “nato nella porpora” che è simbolo del potere dei discendenti di Costantino. Tommaso, despota della Morea, arrivò esule in Italia nel 1460, in cerca d’aiuto contro il sultano. Ad accoglierlo, e ad accogliere con lui la preziosissima reliquia del cranio di sant’Andrea (patrono della chiesa d’oriente così come Pietro e Paolo lo sono di quella d’occidente), c’era Papa Pio II, al secolo il nobile Enea Silvio Piccolomini. E c’era il cardinal Bessarione, aristocratico bizantino nato a Trebisonda, antico dignitario dei Paleologhi poi convertito al cattolicesimo, si dice, per poter meglio sostenere la causa del riscatto dell’impero costantinopolitano. Bessarione, dice Silvia Ronchey, è “un uomo in lutto per il suo secolo”. Non abbandonerà mai l’abito nero da ex monaco basiliano, e sarà il grande tessitore di alleanze diplomatiche e di matrimoni politici. E’ anche un umanista eccellente, cresciuto all’Accademia di Mistrà, la fratrìa neopagana e umanista che il filosofo Giorgio Gemisto Pletone aveva fondato nel Peloponneso, presso l’ultima e più brillante tra le corti bizantine: quella della Morea, appunto, di cui era signore Tommaso Paleologo. L’uomo “alto, biondo e di grande aspetto” e “afflitto da costante malinconia”, che mai sarebbe guarito dal dolore per l’impero perduto e che sarebbe morto senza veder realizzata la crociata voluta da Pio II e da Bessarione.
Di quella “crociata fantasma”, promossa a Mantova nel 1459 ma mai partita, la Flagellazione è il manifesto politico. Per noi occulto, incomprensibile, offuscato dai secoli ma soprattutto, dice Silvia Ronchey, “dalla grande rimozione ideologica di Bisanzio da parte dell’occidente”. Quella rimozione ha reso a lungo indecifrabile, quando non ha dato luogo a interpretazioni astratte, banalizzanti e localistiche, una simbologia che l’“Enigma di Piero” spiega in un modo avvincente e stringente, tanto da renderla del tutto trasparente. Se altri illustri esegeti avevano già compreso e afferrato il filo che legava la Flagellazione all’umore filobizantino radicato nell’intellettualità e nelle corti italiane del Quattrocento (tra tutti, basterà citare Carlo Ginzburg e il suo “Indagini su Piero”, Einaudi), Silvia Ronchey riesce però a fare l’ultimo passo. Incastra l’ultima tessera nel mosaico, senza nessuna concessione alla fiction e sempre nell’ambito della più rigorosa verifica filologica.
Vediamolo da vicino, allora, l’enigma svelato. Sullo sfondo, il Cristo flagellato rappresenta Bisanzio, la cristianità d’oriente sotto attacco, l’impero conquistato dai turchi.
L’uomo impassibile con i calzari rossi e l’atteggiamento inerte è Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore di Bisanzio (nonché fratello di Tommaso e dell’ultimo imperatore, l’eroico Costantino XI, morto in combattimento durante la disperata difesa della città). Fu Giovanni VIII a guidare la delegazione orientale al concilio di Ferrara-Firenze che si tenne nel 1438-39, quando già su Bisanzio incombeva la prossima fine, e che doveva discutere la riunificazione delle chiese. L’uomo di spalle, abbigliato alla turca ma a piedi scalzi (ancora privo, cioè dei calzari purpurei, simbolo della regalità bizantina) è il sultano, in procinto di violare la Grande Città. Veniamo ai tre uomini in primo piano. Quello a sinistra di chi osserva è Bessarione, l’uomo con la barba, l’unico con la bocca socchiusa, che parla per convincere e rassicurare gli interlocutori. Accanto a lui, la figura di giovane biondo è quella, idealizzata, di Tommaso Paleologo, vestito di porpora ma a piedi scalzi (in attesa di riavere i calzari della sovranità bizantina e l’aiuto occidentale). All’estrema destra della tavola, infine, l’uomo dal prezioso vestito di broccato è Niccolò III d’Este, che accolse a Ferrara il concilio del 1938-39.
Agli occhi del tempo, ogni figura doveva apparire inequivocabile: “Un giovane dall’aspetto bello e nobile, vestito di porpora e con i piedi scalzi non poteva che essere un erede al trono bizantino”, spiega Silvia Ronchey, soddisfatta dell’appoggio di uno studioso come Salvatore Settis, che su quell’identificazione, una sorta di punto nascosto proprio perché sotto la lampada, l’ha incoraggiata a procedere. La tavola di Piero doveva dunque rappresentare un incitamento ad ascoltare il grido di dolore che arrivava da Bisanzio e dall’ultimo erede al suo trono. Rievocava il concilio di Ferrara, al quale Bessarione aveva partecipato come esponente della delegazione orientale, e così ammoniva chiunque contemplasse la scena: guai a ripetere l’errore di Ferrara, Bisanzio non doveva essere nuovamente lasciata al proprio triste destino. Era la grande idea di Bessarione, alla quale quell’uomo geniale, ieratico e coltissimo (di lui si diceva ; “Avete mai visto Bessarione senza un libro in mano?”) lavorò tutta la vita.
Silvia Ronchey racconta che “alle vicende del dipinto di Piero è intrecciata una storia di grandi intellettuali che vogliono incidere nel loro tempo, e che hanno una grande competenza, una grande intelligenza e anche uno spietato cinismo politico. Personaggi pragmatici, che però non rinunciano a coltivare i loro ideali. Bessarione conosceva ogni staterello tedesco, ogni piega della politica dei suoi tempi. Ha viaggiato tutta la vita, portandosi appresso i medici che cercavano di curare i calcoli renali che l’hanno sempre afflitto, così come affliggevano il suo sodale Pio II”.
La ricostruzione della storia della Flagellazione è, per Silvia Ronchey, l’occasione per raccontare in modo brillante e appassionato un mondo fatto “di grandi pensatori. Come Nicola Cusano, come Giovanni Torquemada, zio del celebre inquisitore e riformatore della disciplina dei monasteri, come Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che riporta in auge il platonismo dopo dieci secoli di dominio aristotelico, ed è un personaggio-chiave del Rinascimento. Intellettuali affiancati da grandi capi di stato, come Ludovico Gonzaga, Niccolò d’Este, Sigismondo Malatesta, Francesco Sforza”. Rappresentanti, cioè, delle famiglie italiane che, a diverso titolo e con diversi gradi di coinvolgimento, sono legate alla stirpe dei Paleologhi. Non a caso, il libro di Silvia Ronchey prende le mosse dall’arrivo a Costantinopoli, nell’estate del 1420, delle due spose occidentali promesse da Papa Martino V a due figli dell’allora imperatore Manuele II Paleologo. Le due giovanissime Sofia di Monferrato, destinata al futuro Giovanni VIII, e Cleopa Malatesta, abbagliante per sapienza e bellezza, promessa di Teodoro II, despota della Morea e predecessore del fratello Tommaso. E’ proprio Cleopa, dice Silvia Ronchey, “la vera eroina della storia. Tutto parte dal suo matrimonio, diretta conseguenza del Concilio di Costanza (1414-1418) e della risoluzione dello scisma d’occidente. Martino V diventa l’unico Papa, al prezzo della promessa, fatta a Bisanzio, di risolvere anche lo scisma d’oriente e il problema dell’unione delle chiese. Il matrimonio di Cleopa è un punto cruciale di questa saldatura, lo snodo da cui seguire la traccia del clan filobizantino e della sua influenza in Italia”. Cleopa era un fantasma che aleggiava sul libro di Silvia Ronchey, “una congettura, l’anello mancante per una ricostruzione credibile. Ho seguito le sue tracce da Mistrà, dove è vissuta e dove probabilmente è stata uccisa, fino a Rimini”. Lì, dall’archivio storico “è uscita la prova della conversione di Cleopa all’ortodossia, fatto che potrebbe essere stato all’origine della sua soppressione. In un manoscritto autografo di Bessarione ci sono poi dei versi funebri da lui dedicati in gioventù a Cleopa Paleologhina Malatesta, nei quali si parla di un affresco e di una iscrizione sulla sua tomba. Sono andata a Mistrà, e delle cose di cui parla Bessarione non ce n’è traccia. Ma la monaca di un antico monastero mi racconta del ritrovamento di una mummia, acconciata e vestita all’occidentale. Non possiamo essere sicuri che la mummia di Mistrà sia quella della sposa arrivata dall’Italia per Teodoro II. Ma gli archeologi dei tessuti confermano che quelle vesti sono di provenienza adriatica, e degli anni Venti del Quattrocento, quelli in cui a Mistrà si trovava Cleopa”. Silvia Ronchey la descrive come “bella, bionda, precocissima intellettuale, ferrata in greco antico e in latino, fine conoscitrice della letteratura classica, come si conveniva alla pupilla di uno zio potente come Carlo Malatesta, signore di Rimini e capo dell’illustre casata. E coraggiosa, perché riuscì a sopravvivere in una corte ostile, e a sedurre, dopo anni, il marito omosessuale, e ad avere da lui una figlia, Elena. Nel frattempo, Cleopa disegna Mistrà, le lascia la propria impronta inconfondibile. Soprattutto, seduce i componenti dell’Accademia di Pletone, l’indiscussa élite intellettuale dell’epoca. Sarà l’unica donna a essere iniziata ai loro segreti”.
Nell’ “Enigma di Piero” troviamo, magnificamente raccontate, le storie intrecciate di Cleopa, di Bessarione, di Enea Silvio Piccolomini, di Tommaso Paleologo e di molti altri giganti dell’epoca. Ma c’è, soprattutto, la storia della riconquista mancata di Bisanzio, della crociata fallita prima ancora di partire. Secondo Silvia Ronchey, “la rimozione che ha reso così incomprensibile la Flagellazione nasce da lì, da quel fallimento causato dall’incapacità, dalla non volontà, da parte dei principi della cristianità occidentale, di dar concretezza al sogno di Enea Silvio Piccolomini e di Bessarione”. Da qui nasce anche la radice del singolare magnetismo del quadro di Piero, “perché sentiamo che racconta qualcosa che ci coinvolge, ma non sappiamo esattamente che cosa. Interpella ciò che siamo diventati. Fa sentire in modo segreto, a noi smaliziati contemporanei abituati alle catastrofi globalizzate dalla televisione, il peso dolente, insopportabile, di una catastrofe avvenuta più di cinque secoli fa”.
La caduta di Costantinopoli, seppure preceduta da conflitti con l’occidente e da uno scisma mai sanato, secondo Silvia Ronchey “è stata come un 11 settembre elevato all’ennesima potenza. Non è per vetero-storicismo, ma quando un quadro comunica qualcosa di così forte, questo non può che essere legato alla realtà e alla politica del tempo in cui quell’opera è stata concepita”. Se la Flagellazione emoziona anche lo spettatore ignaro di ogni spiegazione è per “la sua perfetta, ancorché misteriosa, incarnazione di un’idea forte. Ha a che fare con il sangue, con la perdita, con la sconfitta. Con un’amputazione, uno scollamento che il nostro mondo paga, in un certo senso, ancora oggi”.
La rimozione di Bisanzio, si diceva, “è soprattutto una rimozione ideologica. Non c’entra la chiesa cattolica, come si potrebbe essere portati a credere. E’ un Papa, Pio II, una delle menti appassionate che lavorano per non ‘dimenticare Bisanzio’”. E allora? “E allora c’è una specie di grande imbarazzo, che nasce dal fallimento di cui parlavamo prima. Il fallimento di qualcosa, una crociata vittoriosa, che avrebbe risolto una gran quantità di problemi. La polemica attorno alla famosa donazione di Costantino, per esempio, perché Cesare e Pietro sarebbero stati di nuovo riuniti, il potere dei Papi e quello dell’imperatore avrebbero trovato una nuova radice comune”. La posta in gioco è talmente alta, che, nel momento in cui si capisce che quell’operazione è irrimediabilmente fallita, Bessarione sarà indotto a non puntare più sui principati italiani, ma sul nuovo principato russo, attraverso le nozze da lui combinate tra Zoe (poi detta Sofia) Paleologhina, figlia di Tommaso, e il Gran Principe di tutta la Russia, che di conseguenza potrà rivendicare la successione giuridica, l’eredità e il ruolo geopolitico di Bisanzio.
L’autore della Flagellazione respira quell’atmosfera intellettuale e politica: “Piero non è solo il depositario di una tecnica artistica, ma è personaggio dialogante con l’intero mondo, politico, storico e umano che lo circonda. Anche lui è un iniziato platonico, e sa usare la prospettiva in modo impressionate. Il personaggio che nella Flagellazione vediamo di spalle, come su una soglia rispetto al Cristo flagellato, è nella posizione dello spettatore del quadro. Che si sente risucchiato dal meccanismo prospettico, come se vi stesse entrando. Il coinvolgimento intellettuale e morale aveva un suo corrispondente visivo che a sua volta era frutto di uno studio a 360 gradi sulla prospettiva. E c’era insieme un messaggio morale forte: chi non è coinvolto, chi non entra, chi non si fa catturare, è come il turco”.
Piero della Francesca, Benozzo Gozzoli, Pisanello, Jacopo Bellini, Andrea Mantegna, lo stesso Carpaccio, sono tutti parte “del clan filobizantino. Sono parte, cioè, del piano politico di salvataggio di Bisanzio, sponsorizzato dalle massime famiglie, dai massimi intelletti politici dell’epoca, italiani e non solo. Quei grandi pittori sono tutti legati mani e piedi agli stessi committenti. E c’è un personaggio, in Francia, che probabilmente è il vero committente della Flagellazione: il cardinale Guillame d’Estouteville, artefice della riabilitazione di Giovanna d’Arco, parente del re di Francia e candidato al soglio pontificio nella stessa elezione che incoronò Enea Silvio Piccolomini come Pio II. C’era, insomma, un vero movimento d’opinione, tra i committenti e tra i pittori che si sceglievano reciprocamente”. Ma quello che rende “straordinaria la Flagellazione di Piero e che invece non c’è, a mio avviso, in opere come il Corteo dei Magi di Benozzo, che pure fa riferimento a sua volta ai legami con Bisanzio, è il rispecchiamento della paralisi della politica. Della luttuosità e del pessimismo di fondo, dello scacco dell’agire politico. La Flagellazione ci prende perché è avvolta in un’aura di emozione, di senso di colpa. Il dramma è sublimato nell’arte, ma ci viene detto che la politica è, comunque, un lago di sangue. Una serie di precedenti verbali della Flagellazione, come i discorsi di Papa Eugenio IV, mi convincono poi che forse i flagellatori non sono nemmeno turchi. Possono essere i pirati, i predatori, coloro che approfittano comunque della sofferenza altrui”. La Flagellazione è dunque il ritratto di un senso di colpa, “che nasce dal peccato originale della non consapevolezza. Una colpa dell’infanzia dell’età moderna, la colpa verso il mondo orientale, l’abbandono di Costantinopoli. Di un mondo, cioè, che a un certo punto è diventato esotico ma che fa ancora parte di noi e delle nostre radici”.