Storia di Barlaam e Ioasaf - La Vita Bizantina del Buddha
Narra la tradizione che Buddha fosse il figlio di un re, al quale era stato predetto che l’atteso erede sarebbe diventato un grande asceta. Volendo che fosse invece a sua volta un grande sovrano, il padre aveva fatto crescere il rampollo in mezzo alle comodità e al lusso, avendo cura in particolare che gli fossero celate accuratamente tutte le sofferenze della vita, dalla più piccola alla più grande. Ma un giorno il principe uscì dal suo palazzo per scoprire la realtà del mondo esterno, e si imbatté in un vecchio, in un malato e in un morto. Turbato, capì che gli agi e le ricchezze tra cui viveva non erano che un’illusione effimera. Decise così di rinunciarvi, per fare vita da eremita in cerca dell’illuminazione che permettesse di liberare l’uomo dalla sofferenza. “Certo che se fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo di Nostro Signore Gesù Cristo”, aveva osservato Marco Polo nel “Milione”, dopo aver narrato la storia del Buddha. Non sospettava che, in realtà, questa “annessione” era già avvenuta. Se ne accorse invece nel 1612 – a Goa, nel cuore dell’India colonizzata dai portoghesi – il cronista e storico Diogo do Couto, grande amico del massimo poeta Luís de Camões. Non c’erano dubbi: la storia di Buddha assomigliava in maniera impressionante a quella dei santi Barlaam e Ioasaf, che nel Tredicesimo secolo Jacopo da Varazze aveva inserito nella sua famosa collezione di vite dei santi passata alla storia come “Legenda Aurea”. Il principe indiano Ioasaf, al cui padre pagano e persecutore di cristiani viene predetto che il figlio si convertirà proprio a quella religione, vive lontano dalle miserie del mondo, in mezzo al lusso e ai piaceri. Ciò non gli impedirà tuttavia di venire a conoscenza di malattia, vecchiaia e morte, e sarà poi convertito dal santo eremita Barlaam. Diventato eremita egli stesso, convertirà al cristianesimo anche suo padre e tutti i suoi sudditi. L’idea di Diogo do Couto fu, in linea con i suoi tempi, che fossero stati gli indiani ad appropriarsi della storia cristiana. Al contrario, fu il santo Ioasaf a derivare da Bodhisattva, “l’essere che si incammina a diventare un Buddha”. L’adattamento della storia buddhista a un ambito cristiano avvenne nel VI secolo in persiano, per poi passare in siriaco e in arabo. Mentre dal XII secolo in poi l’opera ispirò in profondità la cultura occidentale, fino a Boccaccio, Shakespeare, Lope de Vega, Tolstoj e Hesse. Ma la grande mediazione spetta a questo testo bizantino redatto attorno all’anno Mille da un nobile georgiano di nome Eutimio. Figlio di un dignitario della corte di quel regno cristiano vassallo degli arabi, fu mandato come ostaggio a Costantinopoli, e volse questo testo dall’arabo in greco. Ma non lo tradusse soltanto: basti considerare la storia delle persecuzioni ordinate dal padre di Ioasaf, troppo somiglianti a quelle degli imperatori iconoclasti. Accanto alle parabole del Vangelo ci sono poi dieci apologhi tratti dalla favolistica orientale. I bizantinisti Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey non si limitano a riproporre il testo in una traduzione arcaizzante, e a rivelarne la complessa genesi. Silvia Ronchey ricostruisce un vero “romanzo filologico” che intreccia l’esegesi dei testi con alcuni punti cruciali dei rapporti, non solo culturali, tra oriente e occidente. La postfazione di Paolo Cesaretti studia invece il racconto di Barlaam e Ioasaf alla luce della lezione di Vladimir Propp e delle sue teorie sul folclore. Ne emergono peculiari “bizantinismi ideologici”: dal rapporto filiale tra Barlaam e Ioasaf che si rovescia quasi in ostilità, per l’invadenza del pupillo che vuole superare in ascesi il maestro, alla rivolta di Ioasaf contro il padre Abenner, che evoca la rivolta di Adamo contro Dio.