Il principe indiano fuori dal palazzo
Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, a distanza di più di trent’anni, e senza «lo zelo giovanile», (auto)sanzionato in una nota, tornano su Barlaam e Joasaf (Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha, Nuova Universale Einaudi, 2012), aggiungendo così il loro personale tassello al libro-intarsio che ha raccolto, inglobato e ispirato le concrezioni di pensiero, ossessione ed estetica di schiere di studiosi, di appassionati e di scrittori. Non è falso tuttavia scrivere che al centro de la Storia di Barlaam e Ioasaf sta assiso un principe indiano che, rinchiuso dal padre in un palazzo meraviglioso perché non conosca dolore, vecchiaia e morte, e che, per questo, «ha ricevuto in sorte il dono dello stupore», sfugge al proprio destino di grazia e intraprende, forse scalzo, un cammino di conoscenza, di altrove e di solitudine. Non è falso, ma non è tutto, come si capisce per sempre leggendo il Buddha bizantino, l’introduzione di Ronchey che, sotto l’esergo da La tempesta di Shakespeare - «il passato è un prologo» - racconta con acribia filologica e nitida tensione narrativa quanto una storia - «la stringa genetica delle storie» - anticipi o segua certe migrazioni, di genti, di idee e di culti, di sistemi politici pure, e di quanto le intenzioni narrative - «perché la purezza non venga contaminata dalla cognizione del dolore» - nascano assolte ma attraverso il tempo e le conoscenze, si ibridino, diventino altro. Di quanto, per esempio, già per gli studiosi di fine ottocento la storia del Barlaam e Joasaf echeggiava quella del Buddha. Nella prefazione di Ronchey, l’eco diventa però un percorso dimostrativo di una somiglianza per ibridazione o per frequentazione. Questa dimostrazione potrebbe avere natura di filologia di glottologa, o di teologia e invece ha essenza narrativa. Perché, ancora, aggiunge un tassello, entrando così a comporre l’oltrevita di Barlaam e Joasaf, dove, finalmente «non si può smettere di sapere quello che si sa». E per questo, la ripubblicazione de La storia di Barlaam e Joasaf, con la nuova introduzione di Ronchey, è, in questo nostro fosco periodo di assenza di responsabilità e dunque di conseguenze, un gesto rivoluzionario.
Qual è il senso bizantino della parola «conoscenza»?
«La conoscenza è reminiscenza e trasmissione».
Chi è «il guaritore dei racconti»?
«Forse questo libro stesso, forse il suo autore, forse Bisanzio. Certo è l’incarnazione di una sapienza che sta nel curare le domande per guarire le risposte e, come sta scritto alla fine dell’introduzione, “far uscire il discorso dall’impasse in cui è caduto e guarire il dialogo malato, evitando il degenerare dei conflitti”. È una sapienza greca, socratica, e bizantina, platonica. Molte le applicazioni attuali della Terapia Bizantina».
Nel suo Il romanzo di Costantinopoli (Einaudi, 2010),lei parla di Costantinopoli come“ la città delle città”, come “una irregolare figura perfetta”, quanto «La storia di Barlaam e Joasaf» è la storia delle storie?
«Lo è stata sempre, e non solo a partire dalla riscoperta del buddhismo negli studi orientalistici ottocenteschi e di qui nella filosofia moderna. È uno dei pochi elementi comuni tra il Dna culturale orientale e occidentale. Così come di due braccia due gambe e una testa, l’essere umano è universalmente dotato della capacità di comprendere la sua vana condizione esistenziale al di là del velo delle apparenze. La “stringa originaria” della storia del principe Siddharta Gautama figlio di Suddhodana re Sakya di Kapilavastu fa parte del genoma culturale della specie». E perché? «Perché ogni storia parte dalla scoperta della morte, perché solo la vicinanza con la morte permette la vita, perché non si è vivi senza la morte e perché come cantava Caterina Caselli “si muore un po’ per poter vivere”».
Qualè il suo senso della conoscenza?
«Caccia grossa al dettaglio». Perché la cultura è riscritta? «Perché tutto è già stato scritto e come diceva l’Ecclesiaste non c’è nulla di nuovo sotto il sole».
Che differenza passa tra un intellettuale contemporaneo, come lei, e un intellettuale bizantino, come Eutimio?
«Siamo sulla stessa barca. Ci troviamo in condizioni simili, davanti a un archivio del sapere immenso. Nel X secolo bizantino è cambiato il “medium”, c’è stata una trascrizione completa di tutti i manoscritti antichi nella nuova scrittura, e quando c’è un cambiamento di “medium”, siamo in odore di rinascenza. La stessa cosa sta accadendo oggi con la digitalizzazione del sapere. D’altronde le vecchie vie di trasmissione sono bloccate. Con eccezioni, non funziona la scuola, non l’università, non l’editoria, non i giornali, ma nonostante questo siamo alla vigilia del sapere. Ogni minuscola biblioteca della provincia australiana o qualsiasi associazione di lettori ha messo online i libri - tutto tranne quello che è ancora sotto diritti - e ciò significa che un bambino di un villaggio indiano ha davanti la Biblioteca di Babele. Che ognuno di noi si trova davanti alla Biblioteca di Babele. E a parte il pessimismo sulla vita e sulla natura, io credo molto all’impegno politico ed etico, e credo che sia importante quando si parla di qual è la differenza dire che siamo intellettuali bizantini se vogliamo esserlo. Bisanzio è stata la grandissima astronave che ho portato tutta la tradizione classica, greca in particolare, attraverso i secoli. Possiamo leggere l’Iliade perché materialmente il libro è arrivato da Bisanzio. Il nostro rinascimento viene da lì, perché da lì sono arrivati i libri».
Chi è Eutimio?
«Un monaco, come me: un “monachòs”, un “solo”, il Solitario di Goethe».