Pierre Michon. Vite minuscole, stile maiuscolo
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Non è facile spiegare che cosa faccia dell’erudito, minoritario Pierre Michon il massimo scrittore francese vivente. Che racconti della dolorosa emancipazione sociale in Vite minuscole (Adelphi), o di Rimbaud (Rimbaud il figlio, Passigli) o dell’oscuro impiegato ritratto da van Gogh ad Arles (la magnifica Vie de Joseph Roulin), parla insieme di sé e parla d'altro. La biografia e l’autobiografia si fondono per toccare l’umano universale: l’opposto dell’egotismo ombelicale dei campioni di vendite che il mercato della Francia contemporanea, e non solo, periodicamente ci infligge. L’ultimo suo libro uscito in Italia, Gli undici, ambientato durante la rivoluzione francese (ma importa poco, potrebbe essere quella russa o qualunque altra), è un grande romanzo politico sul potere, sugli oppressi e sugli oppressori, su quanto facilmente la natura umana scivoli dall’una condizione all’altra; e sulla posizione dell’artista in tutto questo. I libri di Michon sono e rimarranno un classico della letteratura mondiale entre deux siècles. Che la giuria del Nobel lo riconosca ora o no, non farà differenza.
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