Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

I dittatori democratici

Lettere da Bisanzio

06/05/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

«Non ci sarà un altro Cesa­re!», grida Antonio alla fine del celebre discorso che gli fe­ce pronunciare Shakespea­re nel Giulio Cesare. Non è vero: ve ne sarà una succes­sione infinita, come già dal­le parole di Bruto e Cassio, pochi versi prima, era stato profetizzato. La parola caesar, grecizzata in kaisar nel­l’impero di Bisanzio, darà luogo, in quello della Terza Roma, al nome tsar. Attra­verso la storia dell’impero romano-bizantino, il mito cesarismo attraverserà i se­coli fino al grande avversa­rio della politica «bizanti­na» di Mosca, Bonaparte, e ai dittatori del Secolo Breve. Un mito che sempre si pro­lunga in quello del cesaricidio, tante volte replicato nel­la storia del potere bizanti­no e poi di quello russo.
«Non sono antidemocra­tico, ma ademocratico, per­ché la democrazia non è mai esistita, né ci sarà mai», ha scritto Gaetano Mosca nella sua introduzione alla So­ciologia del partito politico di Ernesto Michels. L’autodefinizione di Mosca, che Lu­ciano Canfora cita, potrebbe forse applicarsi, se non al­l’autore, alla riflessione cen­trale della monografia su Giulio Cesare appena uscita da Laterza con il provocatorio sottotitolo: E dittatore de­mocratico.
Ha scritto Leopardi nello Zibaldone (22-23): «Cicerone predicava indarno, non c’e­rano più le illusioni di una volta, era venuta la ragione, non importava un fico il vantag­gio degli altri, dei posteri ecc., eran fatti egoisti, pesa­vano il proprio utile, non più ardo­re, non grandezza d’animo, l’esem­pio de’  maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gli imperatori, crebbe la lussu­ria e l’ignavia, e poco dopo, con tanto più di filosofia, li­bri, scienza, espe­rienza, storia, erano barbari. Perché la ragio­ne, facendo naturalmente ami­ci dell’utile pro­prio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone».
D’altra parte, «quello che lasciarono i pugnali / La po­vera cosa, un uomo morto», descritto nei versi di Bor­ges, che a loro volta ripren­dono il Giulio Cesare di Shakespeare, è il corpo di un dittatore, ma anche il sim­bolo del fallimento dì un’u­topia politica in cui un pote­re interclassista vuole tra­scendere te fazioni di un si­stema politico paralizzato dal continuo conflitto. Solo in questo senso può andare a Cesare la simpatia del­l’autore, il cu i pensiero e orientamento storiografico si colloca tra i «pessimisti re­pubblicani» razionalmente avversi al mito di Cesare - gli illuministi critici, i libe­rali scettici, i marxisti indi­gnati, da Goethe a Gibbon, da Ronald Syme a Bertold Brecht - e non fra i «provvidenzialisti», entusiasti, già a partire dalla propaganda augustea, di un Cesare se­midivino fattore di storia, addirittura raggiante, come scrisse Mommsen, una «per­fezione che lo storico incontra ogni mille anni e che non può tacere». Sottraendosi a questa discussione millena­ria, Canfora assume una terza, difficile posizione, che oppone al pessimismo della ragione un ottimismo, se non della volontà, dell’uto­pia, una «simpatia per l’e­sperimento politico destina­to a finir male», unita però alla consapevolezza, raffor­zata dall’esperienza di que­sto secolo, della temibilità di un Cesare bellicista e genocida. «Siamo diventati trop­po umani per non dover sen­tire ripugnanza ai trionfi di Cesare», aveva già scritto Goethe, e la frase è oggi di si­nistra attualità.


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