Silvia Ronchey

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Che trucco per l'impero!

Lettere da Bisanzio

03/06/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

La femme fetale, dicono gli studiosi, si riconosce dallo sguar­do. È uno sguardo inconfondi­bile, terribile e antico. Pietrifi­cagli uomini, li priva della vo­lontà, della cognizione dello spazio e del tempo e di ogni altro senso. Come insegnano i miti greci, del resto, la passione è spesso l’inizio di una meta­morfosi. Per la vittima della femme fatale, è l’anticamera del nulla. Nell’Erodiade di Flaubert gli occhi bistrati di Salomè sono terribili e carichi di morte. In una lettera lo stes­so scrittore ricorda così una personale esperienza: «Ema­nava dagli occhi un fluido lu­minoso che sembrava ingran­dirli: erano immobili e fissi. Tutta la terra era scomparsa. Vedevo solo la sua pupilla di­latarsi sempre più» (Correspondance, 1846).
La morte negli occhi è il ti­tolo di un famoso saggio di Jean-Pierre Vernant sul mito di Medusa e le sue implicazio­ni nella psicologia dell'antico uomo greco. Le rappresenta­zioni di Medusa si moltiplica­no, d’altronde, nella letteratura e nell’arte del decadentismo, dalle decorazioni liberty ai di­pinti di Lèvy-Dhurmer, alla capigliatura gonfia e crespa, in­gioiellata, «bluastra e serpentina» della Salomè di Beardsley come di Teodora o di Tu­randot. A celarsi nel mito tardoromantico dello sguardo della femme fatale è un’interpre­tazione simbolica dell’antica immagine della Gorgone.
A questo modello originario di remota regina orientale, dal potere arcano, seduttivo e mortifero, femminile e insieme virile, au­toritario e di fatto materno (una delle prime femmes fatales legate a que­sto archetipo non è forse Giocasta?), obbedisce la descrizione che di una donna fatale bi­zantina fece nel XII secolo un’altra donna. Anna, figlia dell'imperatore Alessio I Comneno, scrittrice di storia nata nella Porpora. Anna Comnena consegna alle pagine della sua Alessiade (voi. I, pp. 107- 108 dell’edizione Leib) questo ritratto della sua matrigna e rivale Maria d’Alania, circassa di nascita, amante di suo padre e già madre del suo sposo pro­messo, Costantino.
«Era altissima di statura e sottile come un cipresso. Aveva la pelle bianca come la neve, il viso perfettamente ovale, guance colore di myosotìs o di rosa. Ma il lampo dei suoi occhi, qua­le essere umano può raccon­tarlo? Sotto le sopracciglia, che erano alte, sottili, arcuate e di colore rosso fuoco, lo sguardo era di un blu verde iridato, da uccello rapace. La bellezza fi­sica dell’imperatrice, la malia che da lei irradiava, il fascino ipnotizzante dei suoi modi, nes­sun poeta potrebbe descriverli, nessun artista riprodurli. Una statua come quella, né Apelle, né Fidia, né alcuno dei grandi scultori l’ha mai scolpita. Si dice che il volto della Gorgone pie­trificasse gli uomini che vi po­savano lo sguardo. Ma chi avesse anche per un attimo ve­duto avanzare Maria, o al­l’improvviso se la fosse trovata immobile davanti, rimaneva lui stesso stupefatto, paraliz­zato nel gesto, svuotato, quasi avesse perso anima e senno. E pareva in compenso si fosse animata una statua, per un sortilegio erotico agli occhi degli uomini sensibili al bello».
È forse a causa di questa ipnosi, è per mascherare questo sguardo o per esaltarlo che la femme fatale fa uso abbon­dante di trucco, in genere scu­ro, attorno agli occhi? Da sem­pre, e fino alla caduta dì Co­stantinopoli, le dame greche orientali usavano un bistro tea­trale, una profusione di kohl, come mostrano le testimonian­ze iconografiche. Il loro è sem­pre stato uno «sguardo oscu­ro», occhieggiante lungo tutto il millennio dalle absidi di Ra­venna o dai mosaici di Santa Sofìa, fino agli affreschi quat­trocenteschi presenti nelle na­vate e negli arcosòli riservati alle sepolture imperiali all’in­terno della Karije Djami a Istanbul, già chiesa di San Salvatore in Chora, studiati da Paul Underwood e restaurati negli anni 60 con intervento di Dumbarton Oaks.


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