Non è più la Lupa la madre dei romani
Intervista con l'archeologo Andrea Carandini: i suoi studi rivoluzionano la storia della città
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Romolo è squartato, come Osiride. I senatori ne portano via ciascuno un pezzo e lo seppelliscono segretamente. Ma le pare che un re squartato sia una cosa inventata nel quarto secolo?». Andrea Carandini, il più brillante archeologo italiano, versa il tè reggendo il vassoio in bilico sulle ginocchia aguzze e contemporaneamente evoca con voce pacata realtà mitiche, cucite con un filo fatto «di materia incandescente», come lui chiama la sua nuova teoria sull'origine di Roma. «Troviamo - dice - un'immane serie di re squartati sia nelle grandi religioni, sia nell'ideologia. Nell'Egitto dei faraoni come nel mito di Dioniso. Per non dire che anche dei papi si seppelliva la "coratella" qui vicino, al Quirinale. Mentre le viscere separatamente, nella chiesa della fontana di Trevi. Nel caso di Romolo, se i senatori erano i rappresentanti delle curie, una reliquia del re è stata seppellita in ciascun rione di Roma». Il nuovo libro di Carandini giace sul tavolino. La nascita di Roma (Einaudi) è dedicata ai primordi e alla fondazione dell'Urbe alla luce delle nuove evidenze archeologiche scoperte dall'autore in dieci anni di scavi, quando non aveva nessuna idea di arrivare né all'VIII né al IX secolo a.C.
Come nasce la sua convinzione della storicità della figura di Romolo?
«Se appena non ci fosse stato, l'avrebbero immediatamente sostituito: ha dietro di sé una serie di attributi tremendi: è un bandito, rapisce le donne, uccide il fratello, viene squartato, appunto... Se la figura di Romolo fosse stata creata in età ellenistica, francamente si sarebbe inventato qualcosa di un po' più elegante».
Siamo abituati ad associare la nascita di Roma con una lupa. Perché, invece, sul suo libro c'è un picchio?
«I demoni primi dei latini erano due, Pico e Fauno. Pico è il picchio, che è il simbolo del temporale e del fulmine, ma anche la scure, che con lo stesso schianto secco abbatte il legno. Fauno è il capro e contemporaneamente, lo dice la radice stessa della parola, è lo sgozzatore, il lupo».
Carandini delinea una immagine della prima Roma come società pre-storica, i cui archivi vanno ricercati non nelle fonti scritte ma nei reperti di un profondo rimosso, sottoterra o negli strati dell'inconscio collettivo.
Professor Carandini, la storia di questo libro comincia da uno scavo in cui lei non cercava la casa di Romolo, ma se mai quella di Cicerone.
«Solo che sotto le case tardorepubblicane sono comparse delle case molto più antiche, della fine del VI secolo. E poi siamo scesi ancora più giù e a un certo punto sono emersi dei tufi di tipo diverso. E c'era un grande fossato che precipitava giù. Abbiamo cominciato a scavarlo, naturalmente al contrario, come capita nello scavo, ma rimettendo le cose in ordine e diritte: il primo di questi muri era del terzo quarto dell'VIII secolo».
Quindi la sua nuova ricostruzione di Roma arcaica presuppone intanto l'assoluta filologia della ricostruzione stratigrafica.
«Certo, e senza precedenti in questo cuore nevralgico del Palatino e per un'estensione di un ettaro».
Gli strati profondi dello scavo...
«Ci siamo accorti che un quartiere protourbano fatto di capanne era stato raso al suolo per costruire un muro. Si distrugge un quartiere per costruire un muro di fortificazione! Ma la grande fortuna è stata che ci siamo trovati non solo davanti a un muro, ma di fronte a una porta, di questo muro, e a un deposito, che chiaramente non era una tomba, perché si trovava sotto la soglia della porta».
Un sacrificio umano?
«Quello che noi chiameremmo un deposito di fondazione, che ha l'aspetto di un sacrificio umano, o simbolico o reale. Poi abbiamo potuto constatare l'abbandono di questo muro, e di nuovo le tracce di particolari rituali che fanno pensare appunto a sacrifici umani: un bambino e anche un adulto sepolti sulla cresta rasata del muro. Il che riporta al mito di Remo».
Lei pensa addirittura a una memoria rituale della sua uccisione?
«Alla memoria di una morte sul muro. Il muro è circondato da elementi rituali, e poi ci sono la porta, il fossato, delle capanne di guardia o di culto ai lati della porta e poi zone di rispetto dove sono state eli' minate le capanne più antiche chiaramente, un forte segno di discontinuità».
Dopodiché?
«Dopodiché ha inizio una serie di altri muri: vede, questi muri non duravano molto a lungo, perché erano fatti anche di materiali come l'argilla, che non potevano durare più di una o due generazioni. Abbiamo quindi una serie di muri sempre con le stesse caratteristiche, il fossato, la porta, le capanne di guardia, lo spazio di rispetto, per duecento anni, fino ad arrivare alla metà del sesto secolo. A questo punto il muro è stato, nella sua maggior parte, abbandonato, e abbiamo un'altra grande soluzione di continuità che corrisponde perfettamente all'allargamento delle mura di Servio Tullio».
Dunque l'archeologia si salda con la tradizione mitica e in qualche modo isola invece la storia, restituendo la fondazione di Roma a modalità e cronologie su cui si ritiene per lo più azzardato se non quasi fantastico, fantarcheologico, azzardare ipotesi.
«Purtroppo gli storiografi si occupano di storiografia, cioè si occupano di quelle società che hanno, appunto, una storia scritta. Ma la Roma dell'età arcaica è stata mia di quelle società "fredde", come l'Egitto faraonico, che ricordano miticamente».
Lei ha trattato Roma arcaica da antropologo più ancora che da archeologo.
«Da antropologo, da archeologo e poi ovviamente da storico, perfettamente consapevole di tutto il travaglio della critica storica, e infine da storico delle religioni. Io non pretendo affatto di avere la verità in tasca. Io dico semplicemente che bisognerebbe cominciare ad abituarsi a pensare che accanto a storie che ricostruiscono le origini di Roma tenendola imprigionata nel IV o nel VI secolo ve ne sia anche un'altra che possa risalire a un'epoca più antica, la mia, e che debbano convivere insieme. Poi tesserà chi avrà più filo per tessere».