Silvia Ronchey

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Interviste

Lévi-Strauss, consigli per il Duemila

Il sacro, la natura, la «famiglia» uomo-animali: il Grande Appartato si confessa

30/09/1997 Silvia Ronchey

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La Stampa

Domanda. Professor Lévi-Strauss, og­gi la scienza può clonare gli individui. Per ora gli animali, in futuro chissà. Lei che ha studiato l’identità, che cosa pen­sa di questa possibilità di perpetuare l’esi­stenza degli individui?

Risposta. Voglio confidarvi un segreto: non ho alcuna percezione della mia identità per­sonale e non mi riconosco assolutamente in ciò che sono stato nel passato. Quindi è un problema che non mi sconvolge più di tanto. Mi sembra che si stiano esagerando enor­memente le cose: tra noi e la clonazione di esseri umani intercorrono ancora secoli, se non addirittura millenni, sempre che la si fac­cia davvero. D’altra parte, la clonazione de­gli animali non è poi così differente da un parto gemellare con possibile differenza d’età tra i due gemelli. Affaticare lo spirito con pro­blemi di questo tipo mi sembra dunque solo un errore.

In riferimento alla «mucca pazza», lei ha parlato di forme di cannibalismo...

La vicenda è questa. Negli anni attorno al 1950 venne scoperta in Nuova Guinea una malattia sconosciuta, ma chiaramente im­parentata con il morbo di Creuzfeldt-Jakob, diffuso invece in Occidente. Gli antropologi hanno allora ipotizzato che la malattia po­tesse provenire da alcune pratiche di tipo cannibalico: le donne, lavorando i cervelli umani, sarebbero rimaste contagiate e avreb­bero poi contagiato i loro congiunti, in parti­colare i bambini.
Negli Stati Uniti si aprì un ampio dibattito. Alcuni miei colleghi approfittarono dell’occa­sione per negare l’esistenza stessa del canni­balismo, fino ad affermare, provocatoriamen­te, che vi avrebbero creduto solo il giorno in cui qualcuno avesse loro potuto dimostrare che sono le pratiche cannibaliche a diffonde­re in Francia il morbo di Creuzfeldt-Jakob.
Ora: è bastato attendere qualche anno per­ché apparissero in Francia e in Gran Bretagna dei casi particolari della malattia, dovuti al­l’introduzione nell’organismo di ormoni del­la crescita tratti dal cervello umano. E, dato che questi ormoni erano destinati ai bambini, la cui crescita non era stata abbastanza velo­ce, e le altre sostanze a donne con problemi di sterilità, abbiamo visto riproporsi esattamen­te il caso della malattia della Nuova Guinea, che colpiva soprattutto donne e bambini.

Suo nonno era violinista, suo padre pit­tore. All’università lei è stato compagno di studi di scrittori e di filosofi, come Simone de Beauvoir o Merleau-Ponty. Ma ci saran­no state delle preferenze tra le diverse ma­terie di studio...

Purtroppo non ho mai avuto delle preferenze, meglio, ne ho avute troppe. Avete ricordato il ruolo della musica e della pittura nella mia famiglia. Tutto ciò risvegliava la mia curiosità. Volevo di­ventare un compositore e desideravo fa­re il pittore. Così ho tentato di compor­re della musica e ho dipinto parecchio. Insomma, durante tutta la mia infanzia mi sono disperso in molte cose e ho tra­scorso l'adolescenza in preda a troppe curiosità, senza mai arrivare a una pre­ferenza precisa. Se ho finito per orien­tarmi verso la filosofia, è solo perché non sapevo che altro fare.

Come ricorda l’ambiente universita­rio degli anni precedenti il ’68, un am­biente da tanti magnificato e mitizza­to rispetto a quello successivo.

Sì... l’ambiente universitario di allora oggi mi sembra quasi mitico... All’epoca la Sorbona non contava più di duemila studenti, rispetto alle decine di migliaia di oggi. La vita universitaria era un vero lusso intellettuale e anche materiale. Le aule non erano mai troppo affollate, le at­trezzature erano buone e vi era la possi­bilità di un contatto diretto con tutti i pro­fessori. Alla luce dell’esperienza poste­riore, sembra un’epoca benedetta.

Dopo la laurea l’avevano chiamata al­l’università di San Paolo del Brasile. Po­tremmo dire che «Tristi tropici», con questa sua straordinaria libertà di scrit­tura, sia stato reso possibile dal taglio col mondo accademico?

Direi che il «taglio» di cui parlate è di­peso molto meno dalla mia formazione che non dalle vicissitudini della mia car­riera professionale. Se mi sono sentito «libero» con Tristi tropici è perché, per diverse ragioni, ho avuto l’impressione che la mia vita ricominciasse da zero. Per di più ero assolutamente convinto che non avrei mai intra­preso una carriera universitaria, tanto più che ero già stato candidato per due volte al Collège de France ed ero stato sempre superato da altri. Allora mi sono detto: «Non ho più nulla da temere: posso lasciarmi an­dare e scrivere tutto ciò che mi passa per la testa».

In Italia è appena stato pubblicato un libro con le sue bel­lissime foto del Bra­sile («Saudades do Brasil», Il Saggiato­re). Gliene mostro una e le chiedo se di quel viaggio ricor­da qualcosa.

Oh sì... quando guardo questa foto, che ho preso io stesso con l’autoscatto, la cosa che mi commuove di più, il mio ricordo più caro, è la piccola scimmietta accosciata sul mio stivale... Era una femmina... l’avevo battezzata Lusinda. È stata uno dei grandi amori della mia vita...
Purtroppo, quando ho lasciato il Brasile, ho do­vuto separarmi da lei, perché se l'avessi porta­ta in Europa il nostro cli­ma l’avrebbe uccisa.

È vero che questa scimmietta appartene­va a una bambina?

Sì, era di una bambi­na nambikwara. Mi pa­re addirittura che la si veda... sì, eccola qua: Lusinda sulla testa della sua prima padrona. Vi posso forse raccontare anche un aneddoto che riguarda la piccola Lu­sinda. Mi avevano chiesto il permesso di fare di Tristi tropici un’opera lirica e io avevo dato la mia autorizzazione perché della cosa non m’importava molto. L’o­pera fu rappresentata - senza successo, credo - a Strasburgo. Un critico scrisse che quella non poteva essere una vera opera, perché mancavano le donne. Al­lora mi dissi che se avessi dovuto rica­vare io stesso un’opera da Tristi tropici ci avrei messo una donna e quella don­na sarebbe stata Lusinda.

Un grande scrittore dell’Ottocento, Joseph Gobineau, preconizza la fine del mondo e parla di quest’epoca «invasa dalla morte, il cui globo, divenuto mu­to, continuerà, ma senza di noi, a de­scrivere nello spazio impassibili orbite». Ecco ci chiediamo se siamo alla vigilia di questa epoca.

È una frase davve­ro mirabile. No, io non penso che que­st'epoca sia vicina. L’astrofisica ha fatto dei progressi dal tem­po di Gobineau, che forse pensava che ciò sarebbe potuto acca­dere nel giro di qual­che migliaio di anni. Oggi noi pensiamo invece a scala di mi­lioni e miliardi di anni, a meno che, be­ninteso, la specie umana non abbia a scomparire completamente, cosa che dopotutto non è affatto impossibile, né inconcepibile. I dinosauri e altre specie animali sono scomparsi 500 milioni di anni fa. Perché mai la specie umana non dovrebbe estinguersi anch’essa com­pletamente? Ma questa scomparsa non è oggi al­l’ordine del giorno.

Come giudica questo spirito apocalittico, questo nuovo millenari­smo, questa «new age» che pervade la fine del secolo?

Ma voi credete che tutto ciò sia davvero nel­la coscienza della gente? No, è una trovata com­merciale e giornalistica.

Oggi si condanna il razzismo, ma forse c’è anche qualcosa da im­parare dalla considera­zione della razza.

Il razzismo si è reso colpevole di crimini tanto mostruosi che oggi si tende ad assumere sistematicamente la posizione opposta, e con ra­gione. Ma un antirazzismo semplicistico finisce per dare più armi al razzismo di quanto non si pensi, perché si sforza di negare delle cose evidenti e di buon senso. Antropologi e genetisti sono tut­ti d’accordo a dire che non esiste un de­stino particolare per ogni gruppo uma­no e che nessun gruppo è condannato dai suoi geni a perpetuare per sempre gli stessi caratteri o gli stessi difetti e che tutto cambia col tempo. Ma concludere affrettatamente che tutti i gruppi uma­ni sono identici e intercambiabili è as­surdo e pericoloso perché va contro il buon senso. Come ha affermato una vol­ta l’Unesco, dopo tutto è l’evidenza dei sensi a indicarci che un nero dell’Africa non è identico a un indiano d’America o a un asiatico. È però necessario re­spingere il razzismo in quanto dottrina biologica che sostiene che il patrimonio genetico di ogni gruppo umano è speci­fico e che da questo patrimonio deriva­no un certo numero di caratteristiche che gli appartengono per l’eternità. I di­versi gruppi che si dividono la superfi­cie della Terra, per effetto della loro sto­ria, delle loro condizioni di esistenza, delle idee, hanno certe caratteristiche che forse non sono quelle che avevano un secolo fa e non sono certamente quelle che avranno fra un secolo. Ciò nondimeno gli uomini attualmente sono lo stesso diversi gli uni dagli altri.

 


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