L’eterno ritorno di una Apocalisse annunciata
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Un papa che muore in pieno Giubileo, a Pasqua per giunta, non è un buon segno. Specialmente se quello che lascia è, come lui stesso lo ha appena definito, “un mondo a pezzi”. I pezzi di quel mondo dove la “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che già da tempo aveva visto in atto ha prodotto tali e tanti flagelli di guerre e stragi, di persecuzioni e discriminazioni, da dissolvere la percezione del dolore del mondo in una “indifferenza collettiva” indotta dall’oscura forza del demone “di calcoli e algoritmi, di logiche fredde e interessi implacabili”, come Francesco ha scritto nelle meditazioni consegnate alla Via Crucis del suo ultimo venerdì santo.
Era stato il Giubileo precedente, quello del duemila, a innescare una psicosi millenaristica di massa, l’attesa di una fine del mondo esplicata in una varietà di predizioni e superstizioni attinte non solo al repertorio escatologico cristiano, com’era accaduto nel medioevo latino, bizantino e islamico, ma anche a quel serbatoio dell’irrazionale globale nutrito dalla caotica neoreligiosità o neocredulità New Age che circolava allora nel database digitale. Dal “mille e non più mille” extracanonico e dall’Apocalissi di Giovanni alla settantaduesima quartina della decima centuria di Nostradamus, dalle dottrine astrologico-calendaristiche dei Maya al millenium bug, molti, dentro e fuori le varie chiese ufficiali o ufficiose, aspettavano lo scatenarsi dei flagelli, i Quattro Cavalieri, gli angeli delle Sette Piaghe.
Che sia stato allora aperto o no il Settimo Sigillo, che si siano di lì a poi succedute o no le sette piaghe (tra clima, pandemia e altri disastri), è il mondo atono e afono di oggi, molto più di quello vivacemente superstizioso del Duemila, a trovarsi a contrastare il peso e la cupezza della dissoluzione di un ordine esterno e interiore, politico e individuale, che si avvicina a ciò che nel linguaggio comune chiamiamo apocalissi.
Nel Nuovo Testamento, seconda lettera ai Tessalonicesi di san Paolo (2, 1-11), compare per la prima volta una parola misteriosa destinata a un grande futuro esegetico: il katechon, letteralmente “ciò che trattiene” il mondo dal suo dissolversi, che gli impedisce di precipitare nella disgregazione, che dilaziona lo scatenamento delle forze che lo distruggeranno; un qualcosa che “tiene a freno” l’avanzata dell’ “uomo dell’iniquità”, del “figlio della perdizione”, e di lì l’apocalissi finale, sino al Secondo Avvento.
San Paolo, secondo l’esegesi tradizionale dei padri antichi, si riferiva all’impero romano, cosicché per tutto il mondo antico, medievale e ancora moderno a “trattenere” il mondo dall’entropia, dall’anomìa dell’Anticristo e della Bestia, era un principio di legittimità politica identificato con Roma o con gli imperi suoi eredi: la Seconda Roma, ossia Bisanzio, poi la Terza Roma, ossia Mosca. Ancora oggi l’ideologia dell’ala più conservatrice della chiesa ortodossa russa vede nella Russia il katechon, e in questo senso andrebbe letto almeno a volte il prospettare, in caso di sua “cancellazione”, un’apocalissi eventualmente nucleare.
Vari filosofi novecenteschi hanno indagato e riproposto il katechon in politica, anzitutto Carl Schmitt, che lo vedeva identificato, negli anni del dopoguerra, nell’Europa. Ma in realtà, se vogliamo attualizzare oggi questa parola, renderla vicina all’attualità rifacendoci più a san Paolo che a Carl Schmitt, possiamo dire che la scomparsa di Francesco fa venire meno il katechon che ha trattenuto finora molti esseri umani dal caos, forse non politico ma sicuramente psichico. Perché in quel gesuita argentino, che amava Borges insieme a Ignazio di Loyola e al bodhisattva di Assisi, risuonava, più intensa e attesa forse per i laici che per i credenti, una voce di buon senso che tratteneva il dissolversi della dea ragione.
Da capo di stato, uno stato in fondo teocratico, deprecava gli estremismi delle religioni; da papa-re, smascherava il re nudo dell’autocrazia mascherata da democrazia. Paventava la minaccia di degenerazione cognitiva e l’intossicazione digitale portata dal Big Tech; l’egotismo, il qualunquismo, il nichilismo; il razzismo verso gli immigrati, i migranti, i diversi, i fragili. Denunciava, rivolto più al creato che al creatore, la crisi climatica e le sue implicazioni politiche, sociali ed economiche, e incoraggiava alla “conversione ecologica” (in greco meta-noia, non dunque nel senso di affiliazione a un dogma, ma in quello etimologico di “cambiamento del modo di pensare”). Decretava l’intollerabilità etica della guerra.
In tutto questo, e non solo nella perorazione di una kantiana pace perpetua, fino a ieri, paradossalmente, è stata la voce del papa di Roma a richiamare in parte almeno i valori illuministi, lottando contro la credulità indotta dai nuovi oscurantismi, dal nuovo oppio dei popoli delle fake news, dalle censure delle nuove sante inquisizioni laiche. A trattenere dalla deflagrazione della propria cultura, da una totale perdita di senso e di identità, non solo il mondo che vedeva a pezzi, ma la psiche e l’intelletto, altrettanto frantumati dalla ruota dei tempi, di ciascuno dei suoi abitanti.