Il ritorno al futuro della scienza antica
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Origine filosofica, origine scientifica. Nel mondo antico non erano distinte. Secondo Empedocle, il grande filosofo presocratico, per le cose mortali non c'è nascita, né fine che le distrugga, ma solo mescolanza, e quella separazione di cose mescolate che dagli umani è chiamata nascita. Gli elementi di cui si compone la materia sono in sé stessi uguali ed eterni, ma si aggregano e coagulano in composti mutevoli. Tutti gli esseri rinascono continuamente in una diversa forma, e non esiste il niente, non sarà mai vuota l'eternità infinita.
L’idea del tempo ciclico domina le origini del pensiero filosofico e scientifico della civiltà di cui ci consideriamo eredi, quella greca, che a sua volta è stata affine molto di più e molto più a lungo di quanto si ritenga a quella orientale, e in particolare all’idea dell’universo perseguita dal pensiero induista, che si sarebbe poi parzialmente trasfusa in quello buddhista. La separazione tra oriente e occidente è un’invenzione recente, così come quella che oggi chiamiamo “la” scienza, i cui enormi progressi nell’esplorazione del cosmo, e quindi di nuovo dell’origine, hanno dominato il Secolo Breve e sono dilagati nel nuovo millennio.
Mai come oggi i traguardi del progresso sociale e dell’istruzione di massa, e anche le conseguenze dell’enorme disponibilità di dati nell’infosfera del web, hanno permesso a larghe fasce della società di non accontentarsi di assunti stereotipi, di dogmi religiosi, di fedi positive o comunque certe — di intraprendere cammini di ricerca individuali, ibridi, liberi.
L’ultimo esempio di intercettazione di questo fenomeno culturale è l’installazione composita, solo apparentemente eclettica, che la Fondazione Fendi ha inaugurato in due sedi, all’interno del Festival dei Due Mondi di Spoleto (1-15 luglio), e che si appella al più celebre detto della filosofia di tutti i tempi — “il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”, il mantra kantiano — a declinare quell’unico, intrepido concetto che è appunto il Mistero dell’origine.
Da un lato, una mostra di sculture e rilievi dell’antichità occidentale e orientale, che affianca a reperti ellenistici provenienti dalle raccolte romane una più sostanziosa scelta di coevi scisti del Gandhāra provenienti dal purtroppo dissolto Museo Nazionale d’Arte Orientale che ospitava i ritrovamenti e le collezioni del grande Giuseppe Tucci, conservati oggi al Museo delle Civiltà dell’Eur, oltreché dal Museo di Arte Orientale di Torino e da collezioni private, in cui l’icona del bodhisattva dalla capigliatura raccolta, gli occhi socchiusi, l’indefinibile sorriso, ricorre soave e ossessiva. D’altro lato, una “installazione virtuale e immersiva”, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e col CERN di Ginevra, che illustra su un antitetico e apparentemente inconciliabile versante la “storia del nostro universo” e ricostruisce la genesi del cosmo, o quanto meno il generarsi dell’attuale concezione che ne ha la scienza, attraverso la storia delle moderne osservazioni dell’infinitamente grande (le stelle, le radiazioni cosmiche, la materia oscura) e dell’infinitamente piccolo (la struttura della materia, gli atomi, le particelle basilari), fino alle più recenti scoperte: il bosone di Higgs, le onde gravitazionali.
Da un lato l’idea lineare della scienza positiva, che postula, al di là delle possibili concezioni e definizioni dello spaziotempo, una progressione “lunga quattordici miliardi di anni, dal Big Bang fino ai giorni nostri”. D’altro alto l’idea ciclica del samsāra, l’eterna ruota di nascite e morti cui sia il macrocosmo della natura sia il microcosmo della psiche umana sono incatenati dalla legge del karma, nella perenne impermanenza di un mondo sensibile dove la continua rinascita della materia vivente non è altro che perpetuazione della sofferenza lungo il tempo infinito di innumerevoli mondi destinati a sorgere e a scomparire.
Ma l’adesione alla visione buddhista non è incompatibile con quella della scienza. Anzi, possiamo considerarla un prodotto della secolarizzazione portata dalla rivoluzione scientifica e dall’illuminismo, da cui l’interesse e la predilezione per il buddhismo — più di una religione, meno di una filosofia, privo di un’ortodossia, mirante a un’ortoprassi — sono passati alla filosofia moderna e contemporanea e di qui al sentire comune dell’uomo occidentale, che avverte quanto e quanto a lungo il pensiero che chiamiamo buddhista abbia riunito oriente e occidente: fin dai tempi in cui, dopo la spedizione di Alessandro, la speculazione delle scuole filosofiche greche e la primitiva predicazione dei discepoli del bodhisattva cominciarono a incontrarsi e mescolarsi.
Di questo scambio di forme intellettuali e artistiche il regno di Gandhāra fu un’arena privilegiata. La mostra di Spoleto è una lampante dimostrazione visiva del fondersi e confondersi, tra Pakistan e Afghanistan, nei primi quattro secoli della nostra era, di oriente e occidente: di quanto affini visioni del mondo e del cosmo si celino tra le pieghe dei panneggi così simili delle statue ellenistiche e di quelle indiane, di come emblemi e simboli delle tradizioni speculative e mistiche indiane e iraniche si siano intersecati alle figurazioni del mito greco, alle riflessioni e all’iconografia stessa dei filosofi tardoantichi.
E’ una visione che approfondisce e nello stesso tempo mette in crisi la visione della nostra scienza positiva. Non nelle sue acquisizioni e nei suoi approdi, paradossalmente sempre più simili a quelli della koiné indogreca, ma perché pone l’accento sul relativismo di ogni visione scientifica. Il più grande portato, forse, del Novecento è la riflessione della scienza su sé stessa, sulla provvisorietà e finitezza del suo sapere: “Lasciate ogni speranza, o voi che vi accingete ad osservare!”, come recita il Galileo di Brecht, che non a caso l’inaugurazione della mostra ha messo in scena, insieme a un ricordo dell’appena scomparso Stephen Hawking. Perché “scopo della scienza non è tanto quello di aprire le porte all'infinito sapere, quanto quello di porre una barriera all'infinita ignoranza”.