Cantami o diva la verità su Eros
Nuovi saggi in uscita indagano l’amore secondo gli antichi. Per i greci era una forma di follia, ma anche il solo mezzo di miglioramento individuale. Tutta colpa di Zeus che ci divise in due metà destinate a cercarsi per sempre
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“Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere”, diceva Lucrezio.
Ma se, scriveva tre secoli prima Platone, Efesto il fabbro, il dio del fuoco e delle fucine, apparisse in quel momento ai due amanti con i suoi strumenti e chiedesse: cosa volete? forse volete fondervi? Io potrei farvi diventare da due uno solo, finché sarete in vita e poi ancora nel mondo dei morti, loro stupiti e imbarazzati direbbero di sì, che è proprio quello che da tempo desideravano, da due diventare uno, congiungendosi e confondendosi.
Secondo la narrazione di Aristofane nel Simposio — un’”enciclopedia dell’eros antico” come lo definisce Roberto Luca in Labirinti dell’eros. Da Omero a Platone (con un saggio di Massimo Cacciari, Marsilio, 240 pp., 23 €) — in origine gli esseri umani avevano quattro braccia e quattro gambe e due facce rivolte all’opposto su un’unica testa, e quando volevano muoversi velocemente rotolavano come una palla. Fu Zeus, per moderare la pretesa di perfezione di queste creature sferiche, a dividerle in due, incaricando Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero di fronte. Ma gli esseri umani così scissi sentivano una terribile mancanza dell’intero originario e ognuno andava cercando la metà perduta e la abbracciava e cercava di fondersi con lei, fino a morire di inedia e di inazione. Perciò Zeus, impietosito, inventò l’unione sessuale e da allora ogni essere umano cerca di ritrovare così l’unità antica e di riunirsi alla metà mancante. Ma coloro che trascorrono insieme tutta la vita non saprebbero neppure dire che cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno potrà credere che si tratti solo del piacere sessuale. E’ evidente che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere. Di ciò che vuole ha un presentimento, e parla per enigmi.
“La verità, vi prego, sull’amore”, invocava un grande poeta inglese, Auden. Non c’è nulla di più beffardo del discorso di Aristofane nel Simposio e del suo mito degli uomini palla. Chi può dire di conoscerlo, l’amore? Eros stesso è l’unico dio a non essere né sapiente né ignorante. E’ figlio di una mancanza: sua madre è Penìa, Povertà, che durante il banchetto per la nascita di Afrodite chiede l’elemosina alla porta degli dèi. Lì si imbatte in Poros, figlio della dea Metis, Intelligenza, ubriaco, e lo seduce mentre è semincosciente. Dal connubio nasce Eros, che contiene in sé un’assenza, un’indigenza (penìa), ma proprio da questa è spinto a cercare ogni via, sotterfugio, espediente (poros) per raggiungere ciò cui tende, come spiega Giulio Guidorizzi ne I colori dell’anima (Cortina, 189 pp., 19 €), un magnifico libro sui greci e le passioni; l’amore essendo in effetti, secondo il titolo dell’ultimo e culminante capitolo, la passione delle passioni.
Perché è vero che l’amore è una manìa, ossia una forma di follia in senso tecnico, classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia, per esempio nel Fedro di Platone. E’ vero che, come diceva Omero, l’amore fa perdere la ragione anche ai più saggi. E’ vero che scrolla la mente come una ventata che si abbatte sulle querce, come diceva Saffo. Che suscita nella psiche un’affezione bipolare: “Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo”, come diceva Anacreonte. Che sgomenta chi dopo anni riconosce il suo “sguardo struggente sotto le palpebre scure”, come Ibico: “Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci”.
Ma è anche vero che solo attraverso questa emozione che “scioglie le membra” proprio come la morte al guerriero omerico, attraverso questa vana macina — tutto ciò che Eros accumula scorre via, per questo non è mai né povero né ricco —, attraverso questo continuo sperpero che chi ama fa di sé, l’amore crea quello stato di vuoto, di penuria assoluta, di vanificazione dei fini materiali di cui affolliamo la nostra esistenza per superficialità, per horror vacui o semplicemente per conformistica, depressa accettazione delle regole della tribù. Eros sgombra il campo: procura un’alienazione mentale che ci salva dall’alienazione sociale, ci mette in contatto con l’assoluto, ci rende indifferenti a ogni status aleatorio, a ogni ricchezza illusoria, ci spinge a raggiungerne un’altra più profonda. Eros “ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità”. Per questo l’amante è più caro al dio e più divino dell’amato. Il desiderio alimentato dalla mancanza fa sì che l’amante continuamente si ravvivi e la passione diventi tensione verso la ricerca di un inesprimibile bene e faccia di lui “un uomo destinato a vivere in modo bello” e a “creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima”, come dice la maestra d’amore di Socrate, Diotima.
Così, come nella fiaba di Amore e Psiche, Eros è il misterioso tramite dell’unica possibile conoscenza umana, il mezzo dell’unico possibile miglioramento individuale, il veicolo dell’unica possibile sintonia della psiche col cosmo. Perché l’una e l’altro, per i greci, sono generati e permeati da Eros.
Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Nella Teogonia di Esiodo emerge direttamente dal caos, nelle cosmogonie orfiche si identifica con la stessa energia cosmica: come racconta Aristofane negli Uccelli, dal seno sconfinato dello spazio primordiale, da quei “buchi neri” — Caos, Notte, Erebo, Tartaro — che ospitavano la materia senza che ci fossero ancora terra né aria né cielo, “la Notte dalle ali di tenebra generò un uovo pieno di vento, e da questo uscì Eros, sul cui dorso splendevano ali d’oro, ed era simile alla tempesta, e congiunto a Chaos nella vastità del Tartaro covò la nostra stirpe e questa fu la prima che venne alla luce”.
Ed è così che gli umani, per citare Cole Porter, begin the beguine. Eros “è il codice genetico della nostra specie fin dall’origine” (Guidorizzi) e perciò nessun essere umano può essere defraudato di questa energia. E’ una forza che porta ordine al cosmo e un apparente disordine all’anima. Ma se raccogliendo la sapienza greca si contempla nel microcosmo dell’anima il processo ciclico di desiderio e tensione, unione e creazione, distacco e mancanza, sconvolgimento e rinnovamento che governa il grande cosmo, se ci si immerge nel suo vuoto e ci si specchia nel suo caos, se ci si scioglie dalla sofferenza dell’io per cogliere nelle vicissitudini della psiche individuale il riflesso dell’anima del mondo, si può come i greci avere il dono di avvertire, nella beguine di Eros, il rumore di fondo dell’universo.