Il valore del silenzio. Meditate, gente, meditate
Articolo disponibile in PDF
Secondo gli etimologisti antichi la parola “mistico” deriva dal verbo myo, “tenere le labbra serrate”, “tacere”. Il mistico è anzitutto colui “che sa tenere la bocca chiusa”. Perché “chi sa non parla e chi parla non sa”, secondo il detto di Lao-Tse. Perché “su ciò di cui non possiamo parlare, si deve tacere”, come quasi altrettanto notoriamente scriveva nel 1922 Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus.
E’ questo, al di là del brusio del neospiritualismo da salotto, dell’occultismo post-new age, il senso primo e realmente culturale di ciò che gli antichi chiamavano insegnamento esoterico, contrapposto a quello “essoterico”, “esterno”. Non si trattava tanto di non rivelare ai non eletti o iniziati chissà quali dottrine o verità. La prima verità esoterica, indischiusa, riservata a pochi perché sostenibile solo da pochi, è che il mondo è irrivelato, che ogni dottrina è parziale, che per descrivere la natura delle cose non abbiamo linguaggio. Solo superando ogni proposizione, sporgendoci oltre il linguaggio, vediamo rettamente il mondo. Ciò che più importa non si può dire perché i limiti del linguaggio sono gli stessi limiti del mondo. E come scriveva Engelmann, un grande amico di Wittgenstein, il vero amante della sophia, il vero filosofo, “non è la costa dell’isola che vuole esaminare con accuratezza, bensì i limiti dell’oceano”.
“Vi sono luoghi di eccellente silenzio — che non è mai un silenzio assoluto. Quando le cose intorno tacciono completamente, il vuoto che lasciano deve a tutti i costi essere occupato da qualcosa, e allora sentiamo il martellare del cuore, i battiti del sangue alle tempie, il ribollire dell’aria che ci invade i polmoni e che poi fugge in fretta”, annotava nel 1914 José Ortega y Gasset in un passo delle sue Meditazioni del Chisciotte, citato in un utile libro appena uscito in traduzione italiana, Elogio del silenzio. Come sfuggire al rumore del mondo di John Biguenet (il Saggiatore, 176 pp., € 11).
E’ istruttivo e gradevole ma non indispensabile spingersi fino alle tradizioni estremo-orientali per rintracciare tecniche di meditazione in cui il silenzio, il vuoto, l’ascolto e il governo del respiro producono quell’uscita temporanea dal mondo e dal linguaggio che ci sospinge dalla costa dell’isola ai limiti dell’oceano. Già la tradizione cristiano-ortodossa dell’esicasmo — un nome che deriva dalla parola hesychia, “quiete” o meglio, di nuovo, “silenzio” — aveva insegnato la via per acquisire quello stato interiore che il teologo Paisij Veličkovskij definì “arte delle arti”, su cui il libro più utile da leggere è la raccolta dei Mistici bizantini curata da Antonio Rigo, con introduzione di Enzo Bianchi (Einaudi, CVIII-803 pp., 85 €).
La fisiologia mistica e la teoria della respirazione degli esicasti bizantini e poi russi avevano poco contatto con il ceppo occidentale del misticismo. Nel grande revival della mistica che accomunò tutto il mondo nel XIII e XIV secolo, l'esicasmo nacque da un incontro di tradizioni orientali, nel mondo bizantino e turco-selgiuchide, dove il cabalismo e il misticismo rabbinico convivevano con le dottrine estatiche del sufismo. Soprattutto, la tecnica esicasta si avvicina a quella indù. Oltre che con l'esaltazione sufica del dhikr interiore, aveva e ha molti tratti in comune con le pratiche yoga e le prescrizioni tantriche e taoiste.
La circolazione profonda, abissale, tra oriente e occidente è sempre stata ininterrotta. Solo interrogando il passato possiamo guardare al futuro, capire, per citare Isaia, a che punto è la notte. In fondo è questo il senso greco della parola oroscopo: horo-skopos, “osservazione dell’ora”.