Dietro ai simboli
Da labirinto a spada, da tabù ad astrologia un dizionario ripercorre l’essenza nascosta di segni e parole. “Un messaggio immanente di trascendenza”
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“A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu”, invocava Rimbaud in Voyelles, una poesia in cui l’associazione di suoni, forme, colori da un lato, oggetti e fatti vissuti dall’altro viene definita da alcuni simbolista per una delle sue più immediate implicazioni: indicare i rapporti profondi che legano tutte le cose; le loro corréspondances, per citare Baudelaire: “La natura è un tempio dove colonne viventi/ talvolta emettono confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che lo osservano con sguardi familiari”.
Rimbaud non era certo il primo ad avere riflettuto sui colori in quanto simboli. Se Goethe nella Teoria dei colori aveva elaborato un sistema in cui la loro scala di luminosità aveva il suo massimo nel giallo (valore nove) e il minimo in quel viola (valore tre) in cui Rimbaud addita il rinserrarsi apocalittico del cosmo (“suprema Tromba piena di strani stridori,/ O l’Omega, raggio viola dei suoi Occhi!”), Paul Klee aveva associato i colori primari a forme geometriche — l’azzurro al cerchio, il giallo al triangolo, il rosso al quadrato — e ancora più audacemente Kandinskij, visionario piccolo padre dell’astrattismo, aveva intuito gli effetti dinamici che i colori, associati alle geometrie, hanno sulla psiche, rifacendosi peraltro alla tradizione dei pittori bizantini di icone.
Sapeva Rimbaud nell’evocare la U, “pace di rughe / che l'alchimia imprime nelle ampie fronti studiose”, che i nostri antenati non conoscevano il verde? che l’occhio dei cinesi e dei giapponesi, così come quello dei latini, non distingueva le sfumature dell’azzurro, il coeruleus del pigmento dell’azzurrite o del lapislazzulo, dal glaucus della malachite? o perfino da quel giallo terreo dei vasi Ming, che in greco si definisce chloros e a Bisanzio descrive l’incarnato degli asceti? sapeva Klee, nell’associare il giallo all’emergenza del triangolo e il rosso alla stabilità del quadrato, che nel sanscrito vedico, così come in quell’enciclopedia sapienziale dell’antichità classica che sono le Notti attiche di Aulo Gellio, il rosso era equivalente al giallo oro? e per i greci era il colore del lutto? e per i cristiani quello, trionfale, del martirio?
Quando Rimbaud parla della I, “sangue sputato, risata di belle labbra”, ricorda che la porpora, estratta dai fenici dal secreto di un mollusco la cui conchiglia spinosa, così ben descritta da Plinio il Vecchio, “ha il colore grigiastro della schiuma del mare in tempesta”, avrebbe simboleggiato per secoli il potere, disegnato la banda che orlava la toga senatoria romana, impregnato le vesti imperiali bizantine, contrassegnato la dignità cardinalizia della lunga tradizione cattolica, seguitando nel contempo a distinguere il processo essenziale (rubedo) della sublimazione nell’immemoriale tradizione alchemica, che non a caso include solo il sistema di colori — nero, bianco, rosso e giallo — ritenuti ammissibili dai pitagorici?
Goethe, Rimbaud, Klee, Kandinskij e dopo di loro molti altri (uno per tutti, nel secondo Novecento, Lévi-Strauss) continuavano, con le loro intuizioni, la millenaria storia del simbolismo del colore, che troviamo ripercorsa, con folgorante sintesi, in una delle novantanove voci selezionate con sagacia dai diciassette volumi dell’Enciclopedia delle religioni di Mircea Eliade e Ioan Couliano e raccolte nel sorprendente, variegato polittico del Dizionario dei simboli, ora ristampato da Jaca Book (426 pp., 35 €), su cui si incastona la gemma del saggio introduttivo di Jacques Vidal: Alla scoperta del simbolo.
Acqua, cielo, danza, deserto, dono. Drago, gatto, giada, luna, piede. Ponte, sonno, tessuto, volo, voto. E così via, ancora e ancora, oggetti astratti o concreti, reali o onirici, corpi geometrici celesti o terrestri, immagini animali o vegetali, minerali o eteree, figure ancestrali, incarnazioni totemiche, strumenti domestici, emblemi alchemici, soggetti mitici, archetipi psichici, elementi cosmici, segni ermetici, codici mistici si allineano nel gioco cabalistico dell’ordinamento alfabetico. Labirinto, lacrime, leone. Numeri, oro, ossa. Specchio, sputo, stelle.
Il simbolo va distinto dall’allegoria (non è astratto, è concreto, è una realtà) così come dall’emblema o dal segno (non è artificiale o convenzionale, è naturale), come spiegava Gilbert Durand ne L’immaginazione simbolica, sottolineando la “connaturalità del simbolo a ciò che vi è significato”. Come scriveva Eliade in Immagini e simboli, “il simbolo non funziona su oggetti ma su immagini”. Apre il suo spazio all’esistenza quando le realtà che ci circondano o quelle che ci abitano cessano, scrive Vidal, di essere oggetti e diventano immagini. L’esperienza simbolica si inaugura quando, come già sosteneva Gaston Bachelard, cessiamo di considerare le realtà esterne o interne come oggetti e cominciamo a viverle come immagini. Una disposizione della coscienza o dello spirito che dona apertura e duttilità, dinamismo e libertà, perché l’oggetto è fisso mentre l’immagine espande. L’uno, secondo il significato etimologico, è ob-iectum, ciò che viene proiettato davanti a noi. L’altra irradia luce, rimanda oltre, è una forma di invito. Il simbolo “risveglia in noi l’energia” per il suo legame con la radiazione dell’immagine, che si oppone alla fissità dell’oggetto.
Il simbolo è “l’impensabile tra due termini”, nella fulminante definizione di Michel de Certeau che Vidal dona ai lettori del suo magnifico saggio introduttivo. Il simbolo, scriveva André Lalande, “è qualunque segno concreto evochi, in un rapporto naturale, qualcosa di assente o che è impossibile percepire”. Ora, se viene percepita l’assenza, è perché la presenza è già esistita. Il simbolo è un segno, come scrive Vidal, “che indica un’assenza ma connota un’esperienza di presenza”. E aggiunge: “La categoria dell’assenza, quando il segno è un simbolo, è inseparabile e indissociabile dalla categoria dell’amore”.
Il che già di per sé proietta il simbolo in una dimensione religiosa, nel senso più ampio: la condizione di presenza-assenza che è tipica dell’amore e che ci unisce all’essenza in un’esperienza di vuoto simile a quella evocata da uno dei grandi simboli usati dall’umanità per definirla, il simbolo uranico, il “cielo”. Come scriveva Durand, “il simbolo cela un contenuto nell’al di là”. Ma “aldilà” non è un luogo, è una categoria: quella che Vidal chiama categoria dell’orizzonte. “L’orizzonte è sempre al di là. Quando vedo l’orizzonte, fosse anche l’orizzonte di Parigi, lo contengo, eppure è sempre al di là. Non cesserà mai di allontanarsi mano a mano che avanzerò verso di lui. Così il contenuto del simbolo è sempre al di là”. Il simbolo è “un messaggio immanente di trascendenza”.
Per questo, secondo Vidal, non c’è simbolo che non sia in qualche modo religioso, se per religione intendiamo il senso del legame (religio da re-ligo, secondo Lattanzio) tra tutte le cose, l’esperienza psichica o la fantasia intellettuale di un’unità del mondo; ne è riprova il fatto che i mistici non possono non esprimersi in un linguaggio simbolico. Ma d’altra parte, osserva Vidal, il simbolo è anche il superamento delle religioni: perché è portatore di un afflato religioso più ampio di qualsiasi religione; perché se il pensiero è in grado di simbolizzare non è mai chiuso. Come scriveva Georges Morel a proposito di Giovanni della Croce, “il simbolo porta in sé sia il significato sia il cammino”.