Silvia Ronchey

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Religione, teologia, mistica

Il Cantico dei cantici. La verità sull'amore nascosta nel più erotico dei libri

06/12/2016 Silvia Ronchey

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La Repubblica

Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino ("Sermo" 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L'iniziato non parlerà perché non potrà farlo ("mysterion" da "myein", «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
Ma alla fine del 1 secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato do il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né vole­va dire: la sua santità era diretta mente proporzionale al suo mi­stero; anzi, era proprio la profon­dità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santi­tà. «Petali di loto le labbra del mio amato/colano mirra. II suo ingui­ne è avorio / tempestato di zaffi­ri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano /l'aroma del tuo grembo/giardi­no chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / suc­chi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo/ mia sorel­la mia sposa / e la mirra e ogni es­senza rapivo / e succhiavo il mie­le dal favo». Poemetto di età postesilica, forse patchwork di can­ti attinti al patrimonio della tradi­zione assirobabilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi gre­co ellenistici nello stile di Teocri­to, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornogra­fico. Nella traduzione latina di Gi­rolamo: Dilectus meus misit manem suam per foramem / et ventrem meus intremuit ad tactum eius. «Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Se­condo la tradizione rabbinica, al­cuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegna­va Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta co­me una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
Levitò presto l'esegesi anago­gica midrashica, gelosamente sa­cra, del Cantico come celebrazio­ne dell'alleanza sponsale tra JHWH e Israele, protratta poi nell'interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la fi­gura dell'amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi al­legorici minori, spesso iniziatici -  astrologici, cabalistici, filosofi-sapienziali - , nella letteratura medievale, rinascimentale e mo­derna. Sulle ali della metafora della sposa chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musi­ca, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occiden­tale sottraeva loro il significato naturale da Ambrogio a Grego­rio Magno, da Guglielmo di Saint Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Salesa Bossuet - più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero ele­mentare. Nigra sum sed formo­sa. Da Monteverdi a Giovanni del­la Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni co­sì colossali nel Cantico da render­lo simile all'Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammo­niva, comunque, a non sottovalu­tare la letteralità che nessun te­sto biblico deve mai perdere. I letteralisti o naturalisti sono sem­pre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinque­cento, Sébastien Castellion, pro­pose di eliminare il Cantico dal ca­none dei testi ispirati, in polemi­ca con Calvino; lo segui Herder. 11 Novecento ha visto anche esege­ti ecclesiastici cattolici, da Dietri­ch Bonhoeffer a Luis Alonso Schòkel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla?
Bisogna intendersi. Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltipli­ca e illumina qualunque espe­rienza reale o spirituale, intellet­tuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Canticoc'è il nul­la. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sa­crale. Dico che è vuoto per non ne­gargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
Almeno quanto l'Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’a­more. «L'uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi. «La mia anima si di­sfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde». Ha scrit­to Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell'a­more, e non sono mai stato capa­ce di spiegare cosa sia. Qui si tro­vano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più al to e il più basso, e non si può mai parlare dell'uno senza considera­re l'altro. Non c'è linguaggio adatto a questo paradosso. Qua­lunque cosa si possa dire, nessu­na parola potrà mai esprimere tutto». Nessuna parola può esprime­re tutto, ma il Cantico, illusioni­sticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / co­me un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l'a­more/ duro come l'Ade il deside­rio». L'amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l'amo re può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l'eros è la morte dell'io e ci fa usci­re dai suoi confini portando all'in­sania, come già segnalato da Lu­crezio?
«L'eros lo conosciamo solo nel­la distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscen­za», ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contempo­raneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d'amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon. Comunità di Rose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico con­tiene anche la migliore traduzio­ne italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l'e­ros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura uma­na. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell'as­senza». La riflessione sull'eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Can­tico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell'er­ma testuale bifronte che esalta­va un amore fisico e carnale fino all'oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o tra­ sporre, il suo enigma. Enfant prodige del platonismo alessandri­no, a poco più di vent’anni Orige­ne si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginna­stica». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i te sti della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applica­zione dell'esegesi allegorica neo­platonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, ope­ra della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme al­le magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gre­gorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l'eredità della ricerca platonica sull'essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e 'annuncio'. Sottras­se al Cantico Ietteralità e fisicità per accenderne l'erotismo meta­forico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzan­dolo in senso psicologico. Col bi­sturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tut­to Io spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso cor­po.
L'auto evirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l'oeil della letteratura univer­sale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario con­notato realistico per diventare un'allegoria dell'eros mistico, di quell'amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione. La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l'interpreta­zione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cri­stiana vulgata. È in primo luogo l'anima, che secondo la tradizio­ne platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orienta­le si è fin dall'inizio affiancato agli altri grandi saperi tradiziona­li nell'esprimere il quaesivi et non inveiti, il "cerco e non trovo" che si applica a tutte le sfere dell'indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.

 

 

 

 


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