Silvia Ronchey

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Religione, teologia, mistica

Quando il Medioevo sapeva la verità sull'amore

Nel Duecento, Raimondo Lullo, ora tornato in libreria, aveva cantato le passioni anticipando versi futuri

04/08/2016 Silvia Ronchey

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La Repubblica

Che cos'è l'amore? Secondo Baudelaire, l'amore somiglia a un'operazione chirurgica, in cui uno sarà sempre il paziente e l'altro il carnefice. Gli antichi lo consideravano una malattia, tra tutte quelle della vita, secondo Lucrezio, la più tormentosa: meglio versare il succo vitale in un corpo qualunque e non riservarlo all'amore di una sola persona, se si vuole evitare il dolore sicuro. Eppure questa dolorosa affezione dell'anima, secondo Platone, è ciò che determina tutte le azioni e aspirazioni degli uomini. Anzi, già secondo Empedocle tutte le cose viventi - alberi, fiere, uccelli, pesci - nascono dal travaglio dell'amore, in cui tutto si riunisce, perché ogni cosa muore di desiderio per l'altra. Ahimè o infelici, gridava, o lacerati mortali, da quali spasmi, da quali singhiozzi siete nati! Dell'antica sapienza paga­na sull'amore, feroce demiurgo di ogni forma dell'essere, si è nu­trito fin dall'inizio il cristianesi­mo, che ha identificato il dio del desiderio col desiderio del divi­no. Dal Cantico dei cantici a Ago­stino, sublimi dialoghi hanno da­to al divino del tu: un Tu che d dà per maestro il dolore e ri cattura attraverso l'amore; un Tu di cui si ha fame e sete, che ci tocca e ci infiamma e ci consuma nella con­sapevolezza che la fonte del desi­derio non è di questo mondo, ma o è al di sopra di noi, o è inabissa­ta in noi: «Interior intimo meo et superior summo meo». Questo assunto ha nutrito, spesso sotter­raneamente, la poesia d'amore del medioevo cristiano, dalla liri­ca trovadorica a Jaufré Rudel, se­condo cui il cuore è capace di gioi­re solo dell'amore di chi non ha mai visto e di godere solo del fat­to che non lo vedrà mai. Lo chia­mava "amore di terra lontana". Nessuna gioia mi piace tanto, cantava, quanto godere di que­sto amore lontano. Paziente e carnefice. Malattia, tormento, dolore. Alberi e uccelli equiparati agli umani in un vive­re che è continuo morire di desi­derio. Fame, sete, fiamma che ustiona. Lontananza, presenza alimentata dall'assenza. Tutte queste immagini, e molte altre, confluiscono nell'appassionato, ossessivo dialogo erotico di quel­lo che è considerato il più bizzar­ro, geniale e unico dei poemi d'a­more del medioevo occidentale, oltreché dei molti scritti di un ari­stocratico, eclettico e visionario catalano del Duecento, Raimon­do Lullo: il Libro dell'amico e dell'amato, che ora esce quasi in contemporanea in due edizioni italiane, l'una basata sul testo ca­talano (introduzione di Francese Torralba Roselló, traduzione e note di Federica D'Amato, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, pagg. 147, euro 14), Taltra sull'autonomo e forse preceden­te testo latino (introduzione, tra­duzione e note di Francesco San­ti, in La letteratura francescana, V. La mistica, Fondazione Loren­zo Valla - Mondadori, pagg. 452, euro 35).
Nella Maiorca del XIII secolo, in cui Giacomo I il Conquistatore ha riportato il dominio cristiano e reinsediato a Ciutat de Mallor- ca una corte della cui aristocra­zia Lullo è al centro fin da bambi­no, l'islam e il cristianesimo con­vivono strettamente. Paggio al servizio del re, poi precettore dell'infante e futuro sovrano Gia­como II, non ancora trentenne è folgorato dalla prima delle sue vi­sioni mentre sta componendo ima canzone d'amore. Seguendo l'esempio dato sessantanni pri­ma da Francesco, nel 1263 ab­bandona famiglia e ricchezze per farsi vagabondo. Pellegrino sulla via di Rocamadour, poi di Santia­go, mistico sempre più tormento­samente visionario, predicatore e missionario laico nelle allucina­te regioni dell'oriente cristiano, esoterista e teologo, si fa ideato­re e promotore di un'ars inve- niendi veritatem in cui, secondo la lapidaria descrizione di Bor­ges, «si accingeva a risolvere tut­ti gli arcani mediante un'armatu­ra di dischi concentrici, diseguali e girevoli, suddivisi in settori con parole latine», facendo della me­tafisica, e delle arti che la espri­mono, «una sorta di gioco di com­binazioni».
L'ars di Lullo dedicava la sua cabalistica macchinazione intel­lettuale alla compenetrazione tra logica e mistica, ma anche e soprattutto fra tradizione cristia­na, giudaica e islamica; allo sco­po dichiarato di far prevalere la prima e sconfiggere le altre due. Per questo negli anni tra il 1265 e il 1274 si era immerso nella tra­dizione sapienziale degli arabi, e ne padroneggiava e scriveva la lingua. Per questo rincontro tra sapienti pagani, cristiani e mu­sulmani è al centro di opere sincretistiche come il Llibre del gen­tl i dels tres savis e come anche il Blanquema, in cui la versione ca­talana del Llibre de amic e amat ci è tramandata prima di conosce­re circolazione autonoma e una sotterranea fortuna che la porte­rà a filosofi come Cusano e Leib­niz. Se nel Libro, un'instancabile variazione sull'amore scandita in tante strofe quanti i giorni dell'anno, concepite dunque per la recitazione quotidiana e poste spesso in forma di domande e ri­sposte, la distinzione tra l'amico (amie, amicus) e l'amato ricor­da quella tra amante e amato nel Simposio di Platone, è alla tradi­zione dei dervisci ispano-musulmani che le metaphorae di Lullo si richiamano quasi esplicitamente. Se in Platone è l'amante ad es­sere più caro al dio, nelle "escla­mazioni mistiche" dei versetti di Lullo l'amato e il dio, il dominus amoris, si identificano. La soffe­renza amorosa diventa cosi Tuni­ca via per un'elevazione spiritua­le che ricorda le tecniche contem­plative della tradizione sufista e si nutre di un linguaggio ibrido di poesia provenzale e mistica isla­mica, peraltro già originariamen­te consonanti nel tema centrale: l'amore come desiderio che non può mai essere appagato.
Se «il cuore dell'amico sale fino alle altezze dell'amato perché l'abisso del mondo non sia di ostacolo al suo amore», è alle strade del mondo che l'amato lo rinvia, ai suoi «dolori e struggimenti», a «meditazioni, sospiri e pianti» di cui sono invasi, come per la Sulamita del Cantico, "strade e sentieri" della sua ricerca. Alla domanda se sia «più visibile l'amato nell'amico o l'amico nell'amato» si risponde che «l'amato è la via che passa per l'amore, l'amico quella che passa per sospiri, lacrime, malattie e dolori». Ma non c'è differenza "fra sofferenza e gioia", come "tra presenza e assenza", tra "vicinanza e distanza", perché «l'amico e l'amato si mescolano come il vino e l'acqua, sono connessi come il calore e la luce, aderiscono l'uno all'altro come l'essere e l'essenza». Nella loro alchemica cristallizzazione della natura, i versetti amorosi di Lullo hanno a volte la sinteticità di esoterici haiku «Gli uccelli salutavano col canto l'aurora. L'amico, che è l'aurora, si svegliò. Gli uccelli terminarono il loro canto. L'amico morì per l'amato all'aurora». Come il percorso di Lullo non è apofatico, negativo, ma catafatico, affermativo, presuppone cioè il positivo manifestarsi del divino nel mondo e la sua dicibilità, così, rispetto ad altre mistiche, la sua visione dell'amore apre la via a una reciprocità possibile tra umano e divino: se nel versetto 145 l'amato giura all'amico che «amare chi lo ama è natura e proprietà del suo amore», nel versetto 161 «l'ami­co sente di essere amato dall'a­mato», anche se ciò non lo guari­sce dalla sua malattia, perché an­zi è l'amato «ad avergli trasmes­so quella malattia, per fargli ono­rare più intensamente l'amore».
Il vertiginoso trompe l’oeil tra eros e mistica è del resto tipico della poesia amorosa medievale. Se l'Amore Lontano di Jaufré Rudel era forse il Nous dei neoplato­nici, la Sophia degli gnostici, la Forma di Luce dei manichei, l'I­dea Velata degli islamici, di alHallaj e Sohrawardi di Aleppo, dei lirici arabi e andalusi, il letto­re del tempo poteva capire cosa fosse il Liber di Ramón Llull: più che un manuale di mistica con tra le righe un breviario esoteri­co per innamorati, una simulazio­ne, all'inverso, di amore cortese che mimetizzava un'iniziazione esoterica, tesa a scoprire, per ci­tare Gershom Scholem, «la vita celata sotto le forme esteriori del­la realtà, l'abisso in cui la natura simbolica di tutto ciò che esiste si rivela». Nella continua rotatio della macchina linguistica, nell'ara combinatoria dei nomi, degli attributi e delle metafore, il fuoco dell'amore è sostanza della dinamica mistica e innesco di una più ambiziosa sfida teologi­ca. Un castello la cui chiave sta forse nel grande interrogativo se­greto della tradizione meditativa-estatica giudaica e islamica su quel principio creatore, sparso al di sopra di noi o inabissato in noi, in cui (v. 205) «amore, amare, amico, amato si uniscono tanto intensamente da diventare un so­lo atto in una sola essenza».

 


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