Silvia Ronchey

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Religione, teologia, mistica

Trattenendo il respiro tra cielo e terra

Zolla. La ricerca di un pensiero globale, comprensivo dell'Oriente, entro la forma occidentale del «logos»

01/12/2002 Silvia Ronchey

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Il Sole 24 Ore

Beati i poveri di spi­rito! E’ loro infatti il regno dei cieli», traduce Girolamo l'enigmatica frase di Matteo 5,3. Ma come interpretare quel pauperes spiritu? Forse si tratta di «coloro che sono privi di spirito proprio»? Saranno be­ati gli uomini impersonali? O si dovrà intendere «beati coloro che essendo bisogno­si andranno allo spirito»: pauperes spiritu nel senso di «mendicanti allo spiri­to»? Povero per la Cabala è il simile alla Shekinah o Gloria di Dio, che è "povera” perché non ha nulla di per sé, ma solo ciò che le viene dalle Sue emanazioni. Perciò povero può significare privo di qualità personali, interamente dipendente dalle emanazioni del Nulla, “vuoto”; significato probabile an­che grammaticalmente
Molte altre esegesi di Matteo 5,3 sono elencate da Elémire Zolla nei Mistici dell’Occidente: da Agostino a Maria Maddalena de’ Paz­zi, da Juan de la Cruz a Shakespeare a Coleridge, passando per la Cina taoista, il ciclo bretone, la Per­sia delle Mille e una notte. Ma l’ultima delle interpreta­zioni è quella che colpisce dritto al cuore. «A conside­rare la teoria mistica della respirazione — scrive Zolla — s'intende pneuma anche in senso letterale: poveri di spirito, di fiato, sono coloro che, per una gran risata o un profondo pianto, hanno espi­rato completamente e non hanno immagazzinato fiato dentro di sé». Così Zolla ri­collegava il più oscuro dei moniti evangelici alla dottri­na antichissima della respi­razione diaframmatica, rie­mersa a Bisanzio nel tredice­simo e quattordicesimo seco­lo sotto il nome di esicasmo. È una dottrina che, co­me un fiume carsico, scorre sotterranea e riemerge in epoche diverse nelle diverse zone del globo: in India e nel Tibet come nell'AIessandria di Filone, nelle steppe mongole e nel sultanato tur­co di Iconio come nella Rus­sia dei «pazzi in Dio» e del Pellegrino ottocentesco l’espirazione di Dio crea e la sua inspirazione uccide, mentre l'uomo emette il fia­to contaminato e trae dentro l'aria benefica, il punto di mediazione tra le opposte respirazioni celeste e umana è trattenere il respiro, come si fa negli esercizi yoga o nella preghiera perpetua de­gli esicasti.
Fu proprio alla scuola gno­stica di Konya, nel Duecen­to di Rumi e del sincretismo tra mistica cristiana, espe­rienza sufi e sapienza ebrai­ca, che nacque, secondo la recentissima teoria del bizan­tinista Antonio Rigo, l'esicasmo. Sarebbe possibile defi­nire Zolla un esicasta? Fu tale per la maniera in cui morì, nella condizione che aveva descritto in anticipo nei Mistici, respingendo ogni cura e misurandosi per ore, interamente lucido, con le contrazioni del muscolo del cuore e col respiro che gli mancava. Fu tale per il modo in cui visse, alla ricer­ca, sempre, di un’esychia della ragione. Fu tale per il manifestarsi nel suo pensie­ro di una tradizione globale, comprensiva dell’Oriente, ma sviluppata nella più occi­dentale delle forme: la for­ma del logos, la logica. I princìpi logici erano al­la base delle sue costruzioni e della struttura del suo scri­vere. Aveva una razionalità adamantina, su cui costruì il suo sistema, in contrapposi­zione allo spasmo dualistico ragione -irrazionalità proprio del pensiero occidentale do­minante», ha detto Grazia Marchiano. In questo senso, lo si potrebbe definire un occidentale filoorientale, eventualmente. Zolla aveva superato l’equivoco di una frattura Oriente-Occidente vista come contrapposizione tra ragione e irrazionalità. È la logica che rende possibile a Zolla il suo esercizio più geniale: l’interpretazione.
«Le esegesi sono un’idra per chi sia mosso da curiosi­tà, ma unità per chi ne ha bisogno, cioè per il povero di spirito», ha scritto nei Mi­stici. Il testo è tutta la varie­tà di letture possibili. Non è in se stesso: le glosse lo va­nificano. Questo, finché non si abbia una lettura nuova, cioè «una coincidenza con un destino personale, che ne­ghi la pluralità delle inter­pretazioni perché ne ammet­te una sola diretta, quella adeguata al momento in cui si vive».

 


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