La forza della fragilità. La vecchiaia è il momento supremo della vita
James Hillman racconta il suo nuovo libro, un «manuale» per capire la terza età
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"Pochi anni fa, da vecchio ormai, sono salito nella soffitta di casa mia e ho scoperto dei quaderni di quando ero bambino. Mi è tornato in mente che non riuscivo a tenere le linee dritte. I giudizi dei miei insegnanti erano positivi in tutto tranne che in calligrafia. Solo ora ho riconosciuto in quel sintomo banale l'indicazione di un destino, il codice della mia anima. Per forza non riuscivo a scrivere: avevo un destino di scrittore!". Stiamo parlando con James Hillman, che nel libro appena uscito in Italia, La forza del carattere (Adelphi), tratta della vecchiaia "come qualità dell'essere".
Dottor Hillman, qual è l'"essere" della vecchiaia?
L'essere della vecchiaia è la rivelazione dell'essenza del fenomeno, qualunque esso sia. Di un albero giovane — di un acero, di una quercia, di un frassino — non si può dire che cos'è o sarà finché non lo vediamo completo, vecchio, contorto nella sua forma. E quella forma contorta è il carattere di quell'albero. Anche gli oggetti che abbiamo creato a nostro uso — ad esempio un muro decrepito, un insieme scomposto di sassi — rivelano nella vecchiaia il loro carattere. Così, un vecchio viso. Il carattere si rivela solo alla fine della vita. La vecchiaia è la manifestazione suprema del carattere e in questo senso è la manifestazione piena dell'essenza.
Per poter esaminare la relazione fra l'"uomo vecchio" e la forma del carattere occorre, lei scrive, liberare l'idea di vecchiaia dalla trappola del modello evolutivo. E cita il concetto di "energheia" enunciato da Aristotele nella "Metafisica": energia come vitalità biologica, non necessariamente estesa, impacchettata, ma manifestata nel tempo, immateriale.
E' appunto questo che noi ammiriamo tanto nei vecchi. E non c'è bisogno che siano vecchi guru, o vecchi Dalai Lama, o vecchi qualcos'altro. Semplicemente, il vecchio all'opera, qualunque opera compia, possiede una particolare qualità di energia. Anche una vecchia seduta in poltrona, la nonna, la bisnonna: i bambini le si accostano con trepidazione, perché avvertono in lei una rara qualità di forza. E forza non è nemmeno la parola giusta, perché i vecchi possono essere anche molto fragili senza perciò perdere energia. E' qualcosa di numinoso. E' come se in loro fosse percepibile una forma pura: la persona come immagine, come opera d'arte.
Una specie di forma originaria di quell'essere?
Mi fa pensare a un'immagine che ho visto e di cui ho parlato nel "Codice dell'anima" per illustrare il concetto di Daimon, che è il "carattere" e insieme il "destino" individuale. E' un'immagine dell'ultimissimo Picasso, che ha dipinto molto, molto tardi nella sua vita, forse a novant'anni. E' una testa di ragazzo, bianca, che è anche una specie di testa di clown, bianca. E' come se in quel quadro Picasso avesse dipinto l'immagine del proprio Daimon, della persona composita che un artista è: un clown e un eterno bambino. Quel quadro è, in qualche modo, la rivelazione istantanea di quella vita come immagine.
Di quell'unica vita?
Sì, ed è in forma di immagine che la nostra vita perdura oltre la vita. Restiamo un'immagine nella vita dei nostri discendenti, dei nostri amici, nella storia dei nostri simili: una specie di influsso. E questo non vale certo solo per Picasso. Intendo che anche le persone qualunque rimangono: permangono in quanto immagini. Quando pensiamo a un morto della nostra famiglia, a un vecchio nonno, a un prozio, focalizziamo un'immagine, un particolare gesto, o una particolare frase, o un particolare dono che aveva nel fare una certa cosa, o simili. Quel morto indugia tra noi come immagine, ed è tutto quello che resta: una manifestazione dell'essenza del carattere, una rivelazione.
In greco la parola rivelazione e la parola apocalissi — alla lettera "disvelamento" — sono sinonimi. La vecchiaia come "apocalissi" di sé? Per questo, forse, fa tanta paura arrivarci?
Credo di sì. Vede, quello che più di ogni altra cosa nella nostra vita vogliamo sapere è chi siamo veramente. E questo, tuttavia, chi veramente siamo, è anche ciò che facciamo di tutto per non sapere. Pensi a quanta letteratura, a quante poesie sono state scritte per affermare ostinatamente questo: che non riusciamo mai a capire chi siamo. Io credo che questa rivelazione nel vecchio sia invece possibile, e che sia visibile anche dalle altre persone. Noi vediamo, nei vecchi, qualcosa che definiamo "così caratteristico", così "inimitabile": ogni vecchio non somiglia ad alcun altro. Noi gli diciamo: soltanto tu hai questo viso, quest'atteggiamento, queste parole. La vecchiaia è la rivelazione ultima del carattere. Per questo per tanti secoli si faceva la maschera mortuaria del volto. Non appena la persona moriva, veniva fatta una maschera per catturare quell'immagine che la persona stava liberando nell'istante della morte.
E questo è a volte piuttosto terrificante. Il carattere del vecchio, il suo farsi "riconoscere", spaventa, si direbbe, chi vecchio non è.
L'energia del vecchio è bizzarra e indisciplinata. E' un tipo di energia che, sì, spesso infastidisce o turba coloro che non hanno ancora concluso il processo evolutivo, ossia la costruzione della loro anima. Ispira soggezione, ma anche timore reverenziale. Per questo i vecchi, se vivono pienamente la loro vecchiaia, sono così importanti nelle culture arcaiche o comunque tradizionali. Hanno la funzione di anziani del gruppo: di mentori, di capi, di sciamani, di sacerdoti o simili. Sono le figure più importanti per mantenere viva una cultura, proprio per quell'energia che ancora vive in loro e che in loro è giunta a maturità. Anche se non tutti vivono così a lungo.