Putin, Cesare di Bisanzio
Nel suo discorso e nella simbologia, a partire dall'aquila bicipite, il leader russo si pone in continuità con l'Impero di Costantinopoli
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Ascoltando il discorso di Putin alla nazione russa che due sere fa si è irradiato in diretta dagli schermi dei televisori, dei computer, dei tablet e dei cellulari di tutto il mondo e ha magnetizzato tra oriente e occidente un’utenza pressoché globale; seguendo la lunga, sottile liturgia delle parole, osservando la precisa simbologia di quel trono mediatico, l’ostensione, se non l’ostentazione, dell’aquila bicipite nel vessillo che sfiorava l’autocrate mentre scandiva le sue rivendicazioni imperiali e storiche sulla culla dell’antica Rus’ di Kiev, molti hanno riconosciuto, nel volto levigato dal cerone e attraversato da impassibili occhi a mandorla, l’icona di un antico e temibile zar.
Non era in un Romanov, non in un settecentesco Pietro il Grande che Putin si specchiava, ma nel cinquecentesco Ivan IV Groznij, il “Glorioso”, più noto come Ivan il Terribile, il sovrano che rifondò la dottrina dell'autocrazia universale dell’impero di cui la Russia era erede: l’impero ‘romano’ di Bisanzio.
Nella seconda metà del Quattrocento, caduta in mano ai turchi quella che per undici secoli era stata chiamata la Seconda Roma, il gran principe di Mosca Ivan III — che già si fregiava del titolo bizantino di ‘cesare’, dal greco kaisar, da cui czar —, aveva legittimato il nome di Terza Roma dato alla sua capitale non solo per diritto religioso, in quanto erede dell’ortodossia, ma anche per diritto dinastico, grazie al matrimonio con l’ultima erede della famiglia imperiale costantinopolitana, Zoe/Sofija Paleologhìna. Aveva rivendicato così la successione giuridica dell’estinto impero di Bisanzio e adottato il simbolo, già proprio del basileus di Costantinopoli, dell’aquila a due teste.
Ivan IV Groznij, nipote di Ivan III e di Zoe/Sofija, formalizzò l’imprinting bizantino dell’impero zarista ideologicamente e pragmaticamente, affermando nelle lettere ad Andrej Kurbskij il principio della legittima successione romana dei ‘cesari’ di Mosca, riorganizzando l'amministrazione imperiale secondo i princìpi dello statalismo centralista bizantino e soffocando il potere dei boiari.
Non è stata molto diversa, fin dalla sua presa del potere, l’agenda di Putin. Il neobizantinismo dell’autorappresentazione del potere russo è manifesto in quelle grandiose sale del Cremlino, non accessibili al pubblico ma solo alle rappresentanze politiche ufficiali, nelle quali Putin ha resuscitato, sempre sotto l’insegna dell’aquila bicipite, veri e propri troni bizantini sfavillanti d’oro e dei simboli di una religione del potere. Il neobizantinismo della sua agenda politica è stato esplicitato, molto presto e in modo inequivocabile, dai suoi consiglieri e teorici, anzitutto da quel cosiddetto nuovo Rasputin — ma la definizione è perfino riduttiva— che è stato il suo confessore Tihon S^evkunov, autore di un manifesto programmatico reso in forma di lezione di storia: La distruzione dell’impero: una lezione bizantina, film di 45 minuti in cui S^evkunov vola dalle cupole innevate di Mosca a quelle di Santa Sofia a Istanbul e di San Marco a Venezia. Qui, davanti al famoso tesoro che incorpora il bottino del saccheggio crociato di Costantinopoli nel 1204, lancia l’accusa: fin dal protocapitalismo delle repubbliche mercantili il rapace Occidente ha dissanguato il millenario impero bizantino, per abbandonare poi Costantinopoli all’orda islamica del 1453.
L’equazione era chiara. La stessa distruzione è inferta all’impero di Mosca, erede dell’autocrazia bizantina fin dal trasmettersi, reale e figurato, del DNA di Bisanzio al nascente impero russo. Perché altrettanto ‘genetico’, stando alla Lezione dell’ideologo di Putin, è l’odio antibizantino degli occidentali. Se il primo errore di Bisanzio era stato fidarsi dell’Occidente — impersonato in una sinistra figura incappucciata con una maschera veneziana dal naso adunco — lo stesso può accadere alla Russia di oggi, infiltrata dallo “spirito giudaico dell’usura” che anima il demone del capitalismo americano. Bisanzio è caduta perché si è lasciata contagiare dalla modernizzazione importata dai mercanti genovesi e veneziani. Lo stesso rischia oggi la Russia, minacciata dagli imprenditori americani e tradita dagli ingordi oligarchi loro alleati.
“Lotta contro gli oligarchi” è chiamata tout court la campagna vittoriosa del basileus bizantino Basilio II contro i magnati dell’impero. Per i suoi paralleli storici S^evkunov già usava le parole d’ordine della politica di Putin. E riprendevano alla lettera i capi d’accusa del processo che allora si teneva contro Boris Berezovskij i giudizi che screditavano la figura del “peggiore e più dannoso degli oligarchi bizantini”, Bessarione. Perché gli autentici traditori dell’impero si annidavano nella sua classe dominante, esattamente come oggi in Russia. Solo mostrando che neppure la ricchezza può sottrarli alla prigione gli oligarchi, nuovi boiari, possono essere domati e trasformati in apparatciki, come nell’XI secolo i magnati dell’impero erano stati riassorbiti nei ranghi della burocrazia di corte al servizio dell’autocrator.
Il più autocratico dei moderni zar, Stalin, era del resto un cultore di storia bizantina: “Stalin sapeva da chi imparare”, dichiara S^evkunov. Al dittatore sovietico, che a sua volta si paragonava al “terribile” predecessore cinquecentesco, gli studi bizantini devono il loro grande impulso nell’Urss del dopoguerra. E’ tristemente celebre l’interrogatorio cui Stalin, affiancato da Z^danov e Molotov, sottopose Sergej Ejzens^tejn, autore, su Ivan Groznij, di un altro film “bizantino” — come in quell’occasione lo definì Z^danov — che però faceva del passato un uso opposto a quello propagandistico di S^evkunov. In quel “colloquio” del 1947 al Cremlino, l’accusa mossa al regista convocato nel cuore della notte era stata di non conoscere a dovere la storia di Bisanzio.
Se nel discorso alla nazione di Putin è accortamente svalutata la figura di Lenin, colpevole di avere escluso, nel disegnare l’Unione Sovietica, la culla stessa dell’impero russo, l’ombra di Stalin ha aleggiato tra le telecamere insieme al fantasma di Bisanzio. E non è stato un caso se, all’indomani, la più concreta reazione a quel discorso è venuta ancora da un altro autocrate, il turco Erdogan. Perché nel XV secolo non fu solo il kaisar/czar russo a rivendicare il karma dell’impero che guarda, come le due teste dell’aquila bicipite, sia a oriente sia a occidente. A partire dalla presa di Costantinopoli del 1453, anche il sultano ottomano userà il titolo di ‘imperatore di Roma’ e nel suo impero la cultura romano-bizantina sarà continuata di fatto. Mehmet II Fatîh il “Conquistatore” e i suoi eredi non soltanto applicheranno il diritto romano in quanto diritto consuetudinario dei popoli cristiani soggiogati, ma mutueranno con rispetto e precisione strutture amministrative e fiscali dell’impero di Bisanzio e ne manterranno la multietnicità.
Da allora, una lotta euroasiatica lunga mezzo millennio ha contrapposto gli eredi della civiltà multietnica romano-bizantina, impero zarista e islam sultaniale, per il controllo dei grandi spazi di quella precisa area in cui un grande intellettuale francese, Fernand Braudel, ha individuato l’entità geostorica che ha chiamato Mediterraneo Maggiore, e che storici recenti hanno chiamato il “cuore geopolitico del mondo”. Finché la caduta dell’impero ottomano all’inizio e quella dell’impero russo-sovietico alla fine del Novecento hanno ridestato gli scontri fra etnie che hanno segnato il turbolento esordio del ventunesimo secolo. Oggi che l’immensa ricchezza energetica di gas e petrolio rende gli spazi dell’ex impero bizantino e dei suoi continuatori e satelliti se possibile ancora più strategici per l’occidente, il fantasma di Bisanzio non può non reinfestarli, incarnandosi in autocrati che si ispirano a un passato imperiale ‘romano’ e ci sorprendono a non ricordarlo.