Bisanzio. Il declino dell'impero più bello del mondo
New York celebra la Roma d'Oriente, come in uno specchio. C'erano bande giovanili come nel Bronx e politica-spettacolo come a Hollywood
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Intorno alla metà del Sesto secolo Costantinopoli, un milione di abitami, capitale del più grande fra gli antichi imperi di cultura occidentale, era percorsa da bande di giovani che si facevano chiamare «azzurri». Non si tagliavano i capelli come gli altri, non si radevano barba né baffi. Scorciavano i capelli fino alle tempie sul davanti, mentre dietro li lasciavano crescere più lunghi che potevano: senza alcun senso, annota lo storico Procopio, ma secondo quella che veniva chiamata «la moda unna». Quasi tutti portavano armi, provocatoriamente. Si radunavano in gruppi. Organizzavano attentati notturni. Aggredivano, derubavano, a volte uccidevano i passanti della metropoli.
Sembra di sentire parlare di New York, e invece siamo a Bisanzio. E non è un caso che proprio a New York, al Metropolitan museum of art. si sia aperta sul periodo d’oro bizantino, quello che va dalla fine dell’iconoclastia alle crociate (843-1261), la più grande mostra del secolo, o del suo declino: la celebrazione di quel sistema ad aita propulsione razionale, di quell’eccesso di civiltà che fu l'impero di Costantinopoli, protratto in un’indefinita decadenza, che però, come diceva Edward Gibbon, coincise con un’infinita prosperità.
La moneta aurea bizantina, incrollabile nei secoli, è stata definita da Peter Brown «il dollaro del Medioevo». La tecnologia bizantina trasmise all'Occidente il telegrafo ottico e il calendario gregoriano, l’arte navale e la manifattura libraria. Supremazia tecnologica e strategia economica, persuasione politica e immaginazione popolare si riflettono a Bisanzio in una produzione dalle molte facce: letteratura, musica, architettura, pittura, tessitura, scultura, oreficeria, decorazione. E ogni aspetto della multiforme Gloria di Bisanzio (questo il titolo della mostra, aperta dall’11 marzo al 6 luglio) è rappresentato nell'esposizione curata da due studiosi del Metropolitan, Helen Evans e William Wixom, ma documentata nelle varie sezioni da grandi bizantinisti americani come Speros Vryonis per la storia della civilizzazione, Thomas Mathews per l’arte e l’architettura ecclesiastica, Robert Ousterhout per quella secolare e Henry Maguire per la magnifica sezione sulla vita di corte.
«New York è un giardino di pietra» aveva annotato Jean Cocteau nel 1936. Anche nelle memorie di Ignazio di Smolensk, uno degli antichi visitatori di Costantinopoli, la città è «una foresta di pietra», oltreché «una giungla di reliquie». Colpisce la consonanza delle impressioni dei viaggiatori medioevali a Bisanzio con quelle degli scrittori che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà di questo secolo visitarono New York. Le cuspidi scintillanti dei palazzi, rivestite di materiali che riflettono la luce, «sembrano giganteschi tabernacoli» al pellegrino trecentesco Ignazio di Smolensk. «L'anima di questi edifici è il successo. Sono i tabernacoli della modernità» osservava negli anni 30 del Novecento Paul Morand, davanti agli sfaccettati grattacieli. Se la vertiginosa altezza dei pinnacoli art déco aveva fatto «tremare il cuore» di Albert Camus «davanti a tanta meravigliosa disumanità», per il monaco vagante Stefano di Novgorod il palazzo imperiale di Costantinopoli è «grande quanto una città», e all’inizio del Quattrocento, nella nebbia mattutina, il ventisettenne nobile andaluso Pero Tafur, costeggiando insonnolito la Marmara da Gallipoli, scambiò Santa Sofìa per una montagna.
Per chi arrivava a Costantinopoli dopo avere attraversato quella buia e incivile provincia che era allora il resto del mondo, occidentale quanto slavo, la città era il faro della terra che emana la luce del giorno, dell’arte e della libertà. Sul Corno d’Oro, nell’incombere dei monumenti di pietra e di luce, il mare, annotano stupefatti i diaristi, entra nella metropoli. La prima cosa che si scorge approdando è la gigantesca colonna con la statua bronzea di Giustiniano, maestoso simbolo della libertà e cioè della legalità romana che vige a Bisanzio, custode per 11 secoli del diritto classico.
L’impero è un melting pot di etnie e per le strade girano persone di ogni razza: mercanti arabi di uccelli e mercanti cinesi di sete, paggi bulgari e pedagoghi russi, asceti siriani e nobili circasse, trovatori provenzali e monaci irlandesi, o sbigottiti vescovi latini, come Liutprando da Cremona, che venuto alla corte di Teofilo ne riportò un diario, senza aver letto il quale non si comprende in pieno il senso di una poesia celebre di William Butler Yeats, Sailing to Byzantium.
Secondo Teodoro Prodromo, poeta maledetto del Millecento, i costantinopolitani sono tutti o artisti o briganti. Quando Stevenson, alla fine del 1800, partì per New York i compagni di viaggio lo avvisarono di non rispondere a nessuno che lo apostrofasse per strada, altrimenti sarebbe stato picchiato e rapinato, e di barricarsi nella camera d’affitto per evitare di essere spogliato di tutto. «Gente viziosa e macerata dal peccato» consideravano i costantinopolitani gli ospiti occidentali, spesso, se diplomatici, raggirati dalla cinica astuzia di funzionari governativi e spie o depredati, se mercanti, nelle mescite degli angiporti lungo il Corno d'Oro, rosseggianti di vino e di sangue. L'eparco, e cioè il sindaco, di Costantinopoli aveva alle sue dipendenze un efficiente corpo di polizia ma faticava già ai tempi di
Giustiniano a mantenere l’ordine pubblico. Demos in greco vuol dire popolo. L’Ippodromo, il luogo dello scontro fra i demi nelle gare sportive, era teatro della politica, e di bagni di sangue. Nel senso letterale, la politica a Bisanzio era spettacolo. Procopio racconta un episodio. Nell'Ippodromo l’imperatore è atteso ed è in ritardo. Gli azzurri raggiungono i palchi dei verdi, scandiscono: «Licenza d’incendio – nessun verde in giro»». I verdi si riversano al centro dello stadio e danno inizio al lancio delle pietre: «Licenza d'incendio - nessun azzurro in giro»». Seguirà, nella notte, una spedizione punitiva antiazzurra.
Gli scontri fra bande avrebbero causato la morte di decine di migliaia di manifestanti nella rivolta Nika, anno 532:30 mila morti nel solo Ippodromo.
La vocazione dell’iperciviltà bizantina all’autodistruzione di massa non era esaurita dall’assemblearismo e neppure dal gusto della mobilitazione permanente. Il movimento ascetico fu un immenso suicidio collettivo. Già dal Terzo secolo accanto al lusso, al benessere - in greco tryphé – si adorava «anachoresis», il suo inscindibile contrario, letteralmente «fuga dal mondo civile». Il benessere bizantino produsse per 11 secoli un esercito di monachói, «individui isolati», per scelta, tanto dal contratto sociale quanto da quello ecclesiastico.
Ma prima dell'hippismo, di Jack Kerouac, di Easy Rider, dislocato in un altro impero allo scoccare degli anni Sessanta, all'esplodere delle prime atomiche nell'atmosfera, al lancio dei primi razzi nello spazio, un analogo culto del deserto era stato proposto da un americano del Kentucky, Thomas Merton. «Quale vantaggio può venirci dal salire sulla Luna se non siamo in grado di attraversare l’abisso che ci separa da noi stessi?» scrive nella sua antologia dei Detti dei Padri bizantini del deserto. Riguardano l'impero americano gli accenni all’imperialismo bizantino «che impone con la forza delle armi la confusione e l’alienazione». E da Costantinopoli di nuovo Merton ci riporta alla nera, fumosa New York descritta nell’autobiografica Montagna dalle sette balze (ora ripubblicata da Garzanti, gli Elefanti, 502 pagine), dove Father Louis vaga «su quegli autobus che si prendono all’angolo di Broadway con la 110esima strada» alla ricerca del De diligendo Deo di San Bernardo. «La nostra» scrive «è certamente un’epoca di solitari e di eremiti. Ma il nostro mondo è diverso dal loro. I nostri lacci sono più stretti. Il rischio che corriamo è molto più preoccupante. II tempo che abbiamo a disposizione forse è molto più breve di quanto pensiamo».
Esaminando gli oggetti catalogati nella mostra, ci si accorge tuttavia che nella celebrazione dell’autocrazia bizantina un altro impero è coinvolto ancora più, forse dell'impero «del bene» americano. L’impresa del Metropolitan, titanico censimento dei frammenti di Bisanzio sparsi nel mondo, è frutto, certo, dell'efficienza americana, ma soprattutto della caduta del Muro di Berlino e della collaborazione fra studiosi e istituzioni di paesi già appartenenti a opposti blocchi, nel declino dell’ex impero sovietico.
Opere d’arte inestimabili sono state inviate dalla Bulgaria, dall’Ungheria, dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Georgia e soprattutto dalla Russia. Così, accanto agli avori costantinopolitani del Metropolitan o dei musei di Cleveland e Baltimora, sono approdati a New York quelli dell’Ermitage e del Museo Pushkin. Alle icone del monastero del Sinai, come la famosa Scala Celeste di Giovanni Climaco [vedere l'illustrazione), del museo di Atene, del Louvre, sono accostate quelle di Pietroburgo, di Novgorod, di Sofia.
Il museo di Mosca ha mandato la sua famosa croce pendente coi quattro evangelisti, capolavoro dell’oreficeria dell’XI secolo, a rivaleggiare con i magnifici gioielli del tesoro di Preslav inviati dalla Bulgaria. Il calice dell’imperatore romano del tesoro di San Marco a Venezia si è ricongiunto con il Cratere Serpentino di Novgorod. Agli smalti della collezione bizantina di Dumbarton Oaks e al Pantokrator della legatura Marciana, riprodotto sul frontespizio del catalogo, si sono aggiunte le favolose suppellettili liturgiche del tesoro di T’blisi. Il piatto argenteo duecentesco come l'ascensione al cielo di Alessandro Magno proveniente da Muzhi, in Siberia, risplende accanto al piatto di smalto multicolore del Museo nazionale tirolese di Innsbruck.
Dal Museo del Cremlino sono arrivati la Stauroteca di Filoteo e il reliquiario di San Demetrio, esposti ora insieme alla Stauroteca Fieschi Morgan degli americani e a quella lignea proveniente dal Sancta Sanctorum Vaticano. Dalla Biblioteca nazionale russa è arrivato il Lezionario Ostromir, appartenuto a Caterina II, con le sue miniature, ora in mostra con quelle delle omelie di Gregorio di Nazianzo provenienti dal monastero di Santa Caterina in Egitto e del manoscritto madrileno della cronaca di Scilitza, oltreché degli omiliari di Montecassino, del rotolo di Exultet della Biblioteca Vaticana, dell’Evangeliario greco dell’Ambrosiana. L'Evangeliario armeno di L’viv, arrivato dalla Polonia, è accostato a quello di Trebizonda giunto dai Mechitaristi armeni di Venezia.