Professione sultano
La vicenda esemplare di Mehmet II e del suo potere fondato sull’iperbole
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"Vi prometto la Città più bella e grande che ci sia, piena di palazzi e terrazze da cui godrete una vista favolosa. Troverete ovunque mobili preziosi, e montagne d’oro e d’argento, e ne diventerete i fortunati possessori. Diventerete padroni di una folla di uomini di alto lignaggio, che vi faranno da schiavi, e di una quantità di donne meravigliose, dalle forme seducentissime."
Il discorso che Mehmet II il Conquistatore, in procinto di diventare il primo sultano di Costantinopoli, fece ai suoi ufficiali alla vigilia dell’epocale scontro del 29 maggio 1453 Ë forse il più denso di iperboliche e nello stesso tempo concrete promesse della storia della politica. Niente a che fare con quello mesto, pieno di ideali e sentimenti ma di nessun esplicito allettamento, tenuto in campo opposto dal suo vis-à-vis Costantino XI Paleologo, che di lÏ a poco sarebbe diventato uno dei massimi perdenti della storia, un "megalomartire": l’Ultimo Imperatore di quella costruzione politica statalista e egualitaria, ma governata da una compatta e fiera aristocrazia di burocrati, che era stata l’impero di Bisanzio.
Mehmet promise, letteralmente, mari e monti. Non era solo una promessa di bottino. La sua abilità stava nel trasfigurarlo, nel saperlo, diremmo oggi, vendere. In realt‡ la Polis non era ricca come aveva detto. Era in rovina, in decadenza. La bravura stava nel trasmettere ai rozzi conquistatori l’idea che la vittoria li avrebbe nobilitati. E nell’incessante insinuare una dimensione sessuale della conquista, tra il luccichio dell’oro e del mattone.
Non che Mehmet fosse un maniaco sessuale, malgrado il suo temperamento ardente. Ma per tutto l’assedio, racconta il cronista Tursun Beg, la Città era "la compagna inseparabile delle sue notti". La sua era la brama di conquista assoluta di chi si è fatto dal nulla. Nato da una schiava, per avere il trono aveva dovuto uccidere i due fratelli legittimi — era normale in quel principato di guerrieri arricchiti, fortemente gerarchizzato ma sul piano statale improvvisato e comunque giovanissimo rispetto al decrepito impero di Bisanzio.
In più, il parvenu Mehmet aveva provato già una volta a salire sul trono ottomano e a governare, ma gli era andata malissimo. La sua arroganza, il suo ostentato ignorare le regole, la sua sfacciata abitudine di anteporre sempre a tutto i suoi interessi personali gli avevano alienato la propria stessa aristocrazia. Era stato mandato in esilio, umiliato. Da lÏ era nata quell’ansia di una vittoria totale, pervasiva, che riscattasse ogni cosa.
Per questo aveva mobilitato tutte le sue risorse. Non solo i soldi, e tanti, ma la tecnologia. Mehmet aveva una vera fascinazione per le innovazioni tecnologiche e un istinto geniale nel piegarle ai suoi scopi. Aveva chiamato tecnici e ingegneri da tutto il mondo e in particolare coperto d’oro un tale Urban, scienziato pazzo forse ungherese, che sosteneva di poter costruire un cannone dalla bocca di fuoco immensa.
In realtà Urban aveva offerto i suoi servigi a Costantino prima che a Mehmet, ma l’imperatore bizantino li aveva rifiutati. Non era la povertà ad averglielo imposto. Avrebbe potuto benissimo ottenere finanziamenti dalle potenze occidentali. All’Europa non andava a genio vedere salire al trono della Seconda Roma, la culla della propria stessa civiltà, un selvatico bastardo turco logorroico, impetuoso, capriccioso e di fatto impresentabile. I capitali stranieri avrebbero potuto affluire nella Polis, e in parte vi erano affluiti, per sostenere la campagna bellica. Anzi, nell’Europa occidentale si preparava una vera crociata e gli strumenti della propaganda contro il "selvaggio turco" erano stati affilati in molti paesi europei e non solo a Bisanzio.
No, era stata una singolare e in fondo simbolica circostanza a impedire ai bizantini l’uso della grande arma che Urban riuscì in effetti a costruire per Mehmet. Se avessero avuto quella tecnologia non sarebbe stato meglio. Le millenarie mura teodosiane, che avevano reso la Città inviolabile per tutto il medioevo, sarebbero comunque crollate per le vibrazioni.
Senza parlare delle discordie interne tra i difensori. I dispetti, i boicottaggi, i sabotaggi reciproci tra i vari gruppi in cui erano divisi furono la causa principale della disfatta. Perché a parte tutto Mehmet era ricchissimo, vanesio e presuntuoso, considerato megalomane se non paranoico perfino dal suo Gran Visir, il saggio Halil Pasha, e dai più assennati membri del suo stato maggiore. E in realtà la sua tattica — conquistare Bisanzio dal mare — era fin dall’inizio dissennata. E i suoi molti effettivi erano disparati, male accozzati tra loro, e avrebbero potuto essere respinti dai difensori, e lo furono fin quasi all’ultimo. Non fosse stato per le vendette incrociate al suo interno, la Polis non sarebbe stata conquistata da quel vulcanico dilettante, tanto meno ferrato dei suoi avversari nell’antichissima arte della politica e della strategia.
E però, nonostante i suoi difetti, Mehmet non era stupido, anzi. Nonostante la megalomania, aveva una sua concretezza. Fin dall’inizio aveva pensato di conservare la vecchia classe dirigente. Intendiamoci, era un’antica consuetudine. Da sempre i barbari, conquistata la Polis, ne venivano soggiogati. Integravano l’Èlite di governo e l’intelligencija e ne erano a loro volta assimilati.
Era stata anche questa esperienza di secoli a far sì che una parte cospicua dell’Èlite bizantina fosse alla fine machiavellicamente e neppure tanto segretamente portata, come si diceva allora e come dichiarò lo stesso primo ministro Luca Notaras, a preferire il turbante turco alla tiara latina. Gli strati cosiddetti turcofili, trasformisti, della vecchia classe dominante dominavano lo scacchiere — o, meglio, giocavano su due tavoli, pronti come non mai a sedersi a quello del vincitore.
Non lo avessero mai fatto. Non tenevano conto che un sultano È un sultano — non un barbaro qualunque, un longobardo, un goto. In teoria, Mehmet avrebbe voluto conservarli più o meno ai loro posti. Ma nella pratica sono spesso i caratteri individuali a condizionare la storia, a imprimerle una svolta.
Il sultano aveva fatto risparmiare i palazzi della Città, e anche le chiese — in fondo era un laico, teneva solo relativo conto dei capi islamici, aspirava al consenso, a essere gradito al popolo, a diventare il sovrano di tutti, e anche per questo la decrepita, sorniona, metamorfica vecchia Èlite gli tornava utile. E per questo l’aveva sottratta al massacro. Il primo ministro Notaras era pronto a diventare Gran Visir — certo, scendendo a qualche compromesso con i rudi falchi dello stato maggiore di Mehmet, ma quello era il meno.
Il problema era il carattere del capo, del sultano. Fu un’intemperanza sessuale, per bizzarro che sembri, a cambiare veramente la storia. Quando, pochissimo dopo la fine del saccheggio, i nobili coniugi Notaras diedero nel loro palazzo una cena di benvenuto per il nuovo signore della Polis, non avevano previsto che l’effetto del vino, unito a quello delle pesanti droghe abitualmente usate dai turchi, e soprattutto sommato al carattere dei Mehmet, gli avrebbe scatenato l’irrefrenabile desiderio di sodomizzare il bellissimo figlio adolescente dei padroni di casa. Al rifiuto degli alteri bizantini il sultano non ci pensò due volte: fece mozzare la testa al primo ministro, e poco dopo a tutti gli altri capi politici della vecchia guardia già pronta al compromesso.
I falchi dello stato maggiore ottomano esultarono. Rimasero, dell’Èlite bizantina, di fatto solo i mercanti. Quando si trattava di far soldi, il modo di governare di un sultano andava bene quanto quello della vecchia aristocrazia di corte. Anzi, forse andava meglio.