Istanbul, la polis
Un viaggio memorabile nel cuore e nelle viscere della città moderna rievocando e riscoprendo la vocazione cosmopolita dell’antica Polis che Bisanzio aveva trasmesso all’Islam. Un itinerario turistico come occasione per un pellegrinaggio nella storia
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Ci sono luoghi in cui la storia è inevitabile come un incidente automobilistico - luoghi in cui la geografia provoca la storia. Uno è Istanbul, alias Costantinopoli, alias Bisanzio», ha scritto Iosif Brodskij nel suo Fuga da Bisanzio. Se andate a Istanbul, cercate di cogliere subito la sua essenza di istmo tra Oriente e Occidente, il trasbordo continuo, reale e metaforico, dell’uno nell’altro. Affacciandovi dai vapur bianchi che salpano, affollati al tramonto di impiegati e pendolari, da Üskü- dar e Kadiköy, vedrete profilarsi la doppia sponda in cui l’Oriente, come diceva Cocteau, tende verso l’Europa «la sua decrepita mano ingioiellata».
Dall’Europa o dall’Asia, arrivate comunque navigando, anche in omaggio a un altro poeta, William Butler Yeats, e al suo Sailing to Byzantium, il cui incipit - «Questo non è un paese per vecchi» - è stato reso inaspettatamente celebre da un film dei fratelli Coen, per la gioia dei bizantinisti. (Conviene tenere sottomano la poesia tutt’intera, mentre vi preparate a entrare nel Bosforo. Insieme all’altra poesia bizantina di Yeats, Byzantium. Versi su cui meditare, e da far decantare).
Al momento dell’ingresso nel Bosforo, alzate gli occhi dal libro e spalancateli. Confrontate le vostre impressioni con quelle dei viaggiatori ottocenteschi che avvistarono la Polis con trepidante emozione dai ponti delle navi, avvolta nella nebbia, come apparve a Melville o a Andersen, o simile a uno smagliante scenario teatrale, come apparve a Thackeray, o, come la descrisse Chateaubriand, all’opera «della bacchetta magica di un folletto». (La miglior guida all’ingresso nel Bosforo è comunque quella fornita da De Amicis nella sua Costantinopoli: altre pagine da ternere a portata di mano e da leggere un attimo dopo, per capire bene che cosa avete visto).
I viaggiatori medievali, entrando nel Bosforo, descrivevano la «foresta d’oro e di reliquie» avvistata dal largo come una fiabesca isola vulcanica: «La sagoma immensa di Santa Sofia, nella foschia dell’alba, mi è sembrata una montagna», scrisse, alla vigilia della caduta di Costantinopoli, un nobile e avventuroso viaggiatore catalano, Pero Tafur. (Oggi potete visitare l’antica basilica di Giustiniano, fresca di restauro, tutti i giorni, comprese le gallerie delle tribune, con i loro mosaici. Arrampicandovi lassù per le tortuose rampe, che a Mark Twain sarebbe piaciuto salire a cavallo, potrete squadrare i volti dell’imperatrice Zoe e del suo terzo marito Costantino IX Monomaco, i protagonisti della più efferata cronaca di corte bizantina, la Cronografia di Michele Psello, scritta nell’Undicesimo secolo ma anticipatrice, nella sua cupa e scintillante ironia, delle Memorie di Saint-Simon sulla corte del Re Sole.).
Durante gli undici secoli dell’impero di Bisanzio e per tutto quello ottomano - fino alla Istanbul fin de siècle e alla «splendeur déliquescente» dei palazzi degli ultimi padishah descritti da Gérard de Nerval - un alone di luce circondava l’architettura della Polis: il riverbero dell’oro delle cupole sull’acqua del mare, che nel Corno d’Oro «penetra la città», come annotava alla fine del Milletrecento il pellegrino russo Ignazio di Smolensk. Affacciato sul mare, proprio al bordo dell’acqua, l’antico palazzo del basileus era «altissimo, più alto delle mura».
«Le immobili moschee, che i secoli non mutano, erano forse più candide, anticamente, quando i nostri vapori d’Occidente non avevano ancora oscurato l’aria qui intorno e solo le imbarcazioni a vela di un tempo» - ha scritto Pierre Loti - «portavano la loro ombra». Se agli occhi dei viaggiatori del Medioevo Costantinopoli era una città «d’oro e di luce riflessa nelle limpide acque del Bosforo», oggi a Istanbul domina invece una gamma di toni che va dal nero al perla passando per il più frequente, il grigio sporco. Su quelle acque perfino l’inquinamento è divenuto estetica: gli scarichi delle petroliere oleosi e cangianti fra i pontili (Brodskij: «Basterebbe raffinare quel petrolio per assicurarsi di che campare lautamente»), la penombra fuligginosa dei sokaklar della città vecchia anneriti dal kömür usato come combustibile, il nero ossessivo dei lustrascarpe, l’ombra dei caffè invasi dal fumo. (Fermatevi a fumare un narghilé nel cortile interno del Çorlulu Ali Paşa Türbesi, vicino al Gran Bazar, oppure al Cafe Marmara, proprio sopra le rovine dell’antico palazzo del Boukoleon. Scegliete tabacco al miele e tè delle Isole per addolcire la gola, o invece un lukum).
«La catastrofe polverosa dell’Asia.» - scriveva Brodskij - «Verde soltanto sulla bandiera del Profeta. Qui nulla cresce tranne i baffi». (Non è vero, anzi è tipicamente turca l’arte di fare la barba e il masaj, il massaggio del viso: provate un erkek kuaförü tra i tanti di Beyoğlu; o spingetevi nell’antico quartiere ebraico di Balat, dove ancora, in qualche angusta erboristeria, potete trovare creme artigianali per farlo in casa.).
L’Istanbul moderna, con i suoi misteri, i cunicoli sotterranei abitati da clochards, le gecekondular o baracche prefabbricate (gecekondu, letteralmente “sorto in una notte”) sulle discariche della periferia asiatica, ha ispirato una letteratura, dal Libro nero di Orhan Pamuk alle Fiabe dalle colline dei rifiuti di Latife Tekin. (Se non li avete portati dall’Italia, potete cercarli in un’altra lingua europea dai bouquinistes dell’Akmar Pasaj, sulla riva asiatica, vicino al porto di Kadiköy. Se invece cercate vecchie stampe, rovistate, più che tra i banchi del giardino del Kapaliçarşi, gli antiquari specializzati dei pasajlar della Istiklal Caddesi, l’ottocentesca Grand Rue de Pera, e di Çukurcuma, sempre a Beyoğlu).
La Polis antica era una mèta decisiva del Grand Tour esotico-religioso dei pellegrini. Il giro di Costantinopoli che i diversi antichi diari annotano è sempre identico, ricorrono mirabilia e leggende: la croce di Cristo, la tavola di Abramo, il letto di tortura dei martiri, il baule dei vestiti della Vergine, il calice di zaffiro, la testa di Gregorio di Nazianzo, il teschio di Santo Stefano Iuniore.
Oggi, come ha scritto David Lodge, «l’itinerario turistico è ormai un pellegrinaggio secolare, i souvenir hanno preso il posto delle reliquie». Vi sarà perdonata una visita al Bazar Egiziano, davanti al ponte di Karaköy, per fare provvista di spezie. (Ogni stambuliota vi dirà sdegnato che la sua drogheria di quartiere è molto meglio, ma non credeteci: è il tipico snobismo costantinopolitano.) Accanto al fantastico Museo dei Tappeti e dei Kilim, a sinistra dell’ingresso principale della Sultanahmet Camii o Moschea Blu, vi sarà concessa anche una caccia al susani nell’Arasta Bazar. (Di nuovo, non date retta ai raffinati, che ve lo descriveranno come una semplice trappola per turisti: certo che lo è, ma è ancora il più lussureggiante vivaio di tessuti turkmeni, confluiti lì da tutta l’Asia Centrale - magari passando per Londra o Parigi, ma che importa?).
Per il resto, fuggite le sirene del consumismo, mettete le gambe in spalla e girate i quartieri. Anzitutto quelli della penisola storica, partendo da Sultanahmet. (Dove siete vivamente consigliati di scendere: di nuovo a dispetto dei vostri amici stambulioti, che vi diranno di andare a stare a Beyoğlu, a Nişantaşi o, meglio, a Cihanğir; che è sicuramente più boho e trendy ma non insiste sulle rovine del Gran Palazzo dei basileis come invece i butik oteller o anche le pensioncine che si affollano tra la grande e la “piccola” Küçuk Ayasofya, ossia l’antica chiesa dei Santi Sergio e Bacco).
Percorrete a piedi almeno il quartiere di Fatih, che prende il nome dalla Moschea del Conquistatore (oggi visibile nel suo rifacimento settecentesco), edificata dallo stesso Mehmet II sulle macerie del più grande e importante monumento della Costantinopoli bizantina, il complesso dei Santi Apostoli.
Fatih è uno dei quartieri più vivi e autentici della città moderna. Di lì, se volete un magnifico panorama, salite a sorseggiare un tè sulla collina della Zeyrek Camii, l’antico Pantokrator, o contemplate l’acquedotto di Valente, il Bozdoğan Kemeri (“Arcata del Falcone Grigio”), nel quartiere di Vefa (qui, se è inverno, fate un salto nel magnifico bar maiolicato che serve il boza). (Altri panorami su tutta la città dalla Collina dei Pini - il punto più alto di Istanbul - vicino a Usküdar. Per visuali inedite di Santa Sofia arrampicatevi - stavolta sì - per Cihanğir, vicino a piazza Taksim: da alcune delle stradine che scendono verso il Bosforo si vede la più antica e famosa cupola del mondo stagliarsi a sud. Ottimi punti panoramici anche a Kadıköy e a Galata/Karaköy, ad esempio dalla terrazza del museo Istanbul Modern.).
In ogni caso, per cogliere l’ultimo panorama della città storica, arrivate alla Edirne Kapı. E di lì cominciate la visita degli edifici bizantini dal più importante dopo Santa Sofia: la Kariye Camii, l’antica chiesa di San Salvatore in Chora. Gli scrittori novecenteschi, da Cocteau a Patrick Leigh Fermor, sono andati in deliquio davanti ai suoi affreschi, restaurati negli anni ‘50 e ‘60. Non dimenticherete mai i volti di Teodoro Metochita o della monaca Melania, né i ritratti murali degli ultimi imperatori Paleologhi nelle nicchie delle gallerie laterali dove si trovano le loro sepolture.
A questo punto spingetevi fino all’ayazma delle Blacherne, nel quartiere di Ayvansaray, per compiere il rituale lavacro degli occhi (e contemplare l’antica fonte miracolosa, dove l’acqua stilla ancora goccia a goccia da un pertugio sotterraneo). Ripiegate poi a sud, lungo il Corno d’Oro, e attraversate il Fanario (Fener), l’antico quartiere dei greci costantinopolitani o “romèi”, ancora oggi sede del Patriarcato Ecumenico (guardate bene gli splendidi edifici oggi in rovina, come l’emblematica Kassa tou Koinou ton Rhomaion, dove si riunivano i rappresentanti delle corporazioni dell’antica comunità). Passate per la Gül Camii, l’antica chiesa di Santa Teodosia, commuovetevi davanti all’architettura di Santa Maria dei Mongoli (Kanli Kilise), l’antica Mouchliotissa, come già fecero Satcheverell Sitwell e Nedim Gürsel, e rientrando verso l’interno approdate infine alla Fethiye Camii, l’antica Pammakaristos: nel parekklesion, restaurato e trasformato in museo proprio come la Kariye Camii, vedrete una delle decorazioni musive più impressionanti e uno dei tesori più importanti di tutta la Città.
A Istanbul convivono non solo le etnie, ma, a strati, le epoche, forse tutte. Prendendo il taxi, per esempio, rivivrete gli anni 60. «È qui che le vecchie automobili vengono per morire, e invece diventano dolmuşlar, taxi pubblici». Brodskij evocava le vecchie Dodge e Plymouth, ma non sono da meno le Murat, di fabbricazione turca, che riproducono modelli Fiat altrimenti visibili solo nei film in bianco e nero.
La stratigrafia istanbuliota si applica, com’è ovvio, anche e soprattutto alle pietre. Ultimamente la bizantinistica ha molto studiato e riflettuto (leggete per esempio la Costantinopoli di Gilbert Dagron) sull’architettura secolare della Polis come cuore artificiale e chiave per decrittare la simbologia ideologica dell’impero che continuava senza interruzioni il mandato storico di quello romano.
Non confondete la zona del Gran Palazzo (praticamente tutto sotto terra, con rarissimi resti visibili: una sorta di labirintica città nascosta fatta di terrazzamenti e sostruzioni, accessibili da ingressi non lontani dall’attuale Museo dei Mosaici, che ospita quanto venuto alla luce negli scavi novecenteschi), la cui area è quasi interamente sovrapponibile alla parte sudorientale del quartiere di Sultanahmet, con il palazzo dei sultani, il Topkapi, dentro cui si trova comunque la più antica chiesa bizantina di Costantinopoli, Sant’Irene (visitabile però solo poche volte l’anno, in occasioni speciali).
L’Ippodromo (At Meydani) va ben oltre l’omonima sphendone, la grande curva sul lato sud dell’antica pista, ben visibili percorrendo Nakilbend Sokaği in direzione del Mar di Marmara.
È indispensabile il giro delle lunghe Mura Teodosiane, e non solo per i resti del Tekfur Sarayı, il cosiddetto Palazzo del Porfirogenito, dalle finestre intarsiate di marmo rosso e bianco, vicino alla Eğri Kapi, l’antica Porta Caligaria. Dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco, parzialmente in rovina ma fortunatamente non più sottoposte al pittoresco restauro turco, la loro tripla cinta muraria contava quasi duecento torri e una lunga serie di porte, alcune delle quali ancora oggi in uso: da una di queste, forse la Edirne Kapi o Porta Charisii, i giannizzeri di Mehmet II irruppero all’alba del 29 maggio 1453. Destinate all’ispezione delle Mura Teodosiane una giornata piena. (Per lunghi tratti potete camminarci sopra, calzando un colbacco se è inverno, per proteggervi dalla pioggia a vento o dalla neve, un cappello di paglia se è estate, per ripararvi dal sole implacabile.) Studiate la più grande opera di ingegneria bellica della nostra civiltà, la cui struttura è ancora ben comprensibile; contemplate la selvaggia natura che a tratti si inerpica tra le sue crepe, come Lamartine e un po’ tutti gli scrittori romantici; ma soprattutto ammirate gli orti che la circondano, rimasti in vita dall’epoca bizantina ad oggi senza di fatto soluzione di continuità.
Un’altra giornata dedicatela alla costa del Marmara, al Monastero di Studio e alla Porta d’Oro, oggi inclusa nella cosiddetta Fortezza delle Sette Torri. (La migliore ispezione delle Mura Marittime e dei resti bizantini disseminati lungo il loro tracciato oggi non si fa, come De Amicis, a piedi, ma prendendo il treno dalla Sirkeci Garı fino alla Yediküle Istasyonu e guardando da ambedue i finestrini.).
Oltre che dal passato, dall’Oriente e dalla fuliggine, Istanbul, come tutta la Turchia, è incontestabilmente invasa dalla musica. La tradizione musicale ottomana è, si sa, una delle più straordinarie del mondo. Sono anche molto più belle di quelle dei nostri cantautori le canzoni di Zülfü Livaneli, per trent’anni il dissidente-simbolo della Turchia contemporanea, l’artista combattente, l’intellettuale trasgressivo, il mito vivente dell’intero mondo turco; oggi deputato, professore universitario, ambasciatore dell’Unesco, animatore di istituzioni internazionali come il Forum sul futuro del pianeta fondato con Gorbacev o il Comitato per l’amicizia greco-turca fondato con Mikis Theodorakis. (Nelle vie di Beyazit, intorno al Kapali Çarşi, brulicano i negozi di strumenti musicali, mentre per i cd esistono magazzini colossali lungo l’İstiklâl Caddesi a Beyoğlu e vicino a piazza Taksim, con grande scelta anche di incisioni di musica classica occidentale a prezzi molto convenienti.).
Solo in alcune case private è tenuta in vita un’altra tradizione, quella del teatro delle ombre o Karagöz, le cui storie tra piazza, nella quale restano comunque ancora presenti (e sconvolgenti) l’obelisco di Teodosio, il troncone della colonna serpentina di Delfi, in cui gli antichi viaggiatori credevano fosse instillato veleno di serpente, e il cosiddetto Colosso, un obelisco in muratura rivestito di lastre di bronzo sotto Costantino VII Porfirogenito (leggete, nel visitare quest’area, almeno alcune pagine del suo Libro delle cerimonie). Per rendervi conto delle proporzioni dell’Ippodromo visitate i resti della dizionali, che vanno dalla Leggenda di Alessandro alle Mille e una notte, alla satira di costume e politica, assomigliano ancora al mimo antico. Le silhouettes che raffigurano Karagöz stesso e Hacivat, i due personaggi fissi, su membrane animali colorate, si acquistano ancora in alcune botteghe del Gran Bazar. Di tutti gli scrittori del secondo Ottocento calamitati da Istanbul decadente capitale ottomana il più affezionato fu Pierre Loti. Il caffè panoramico che frequentava quando, giovane ufficiale di marina, viveva a Eyüp, gli è stato intitolato (Piyerloti Kahvesi) ed è diventato tremendamente turistico; ma conserva molte litografie originali e fra i tavoli si possono sfogliare esemplari antichi dei suoi romanzi ambientati a Stamboul.
Se volete provare ancora il fremito del pericolo di cui sono intessuti i romanzi di Loti, l’unico posto di Istanbul dove rischiate di vedere balenare una lama di coltello è il Mercato Russo di Beyazit la domenica mattina, tra l’Università e la moschea di Solimano il Magnifico (Süleymaniye Camii). Nella nuova, esplosiva metropoli di più di 12 milioni di abitanti sono tornati i cittadini dell’ex-impero della Terza Roma. Dopo la caduta dell’impero sovietico, come in un déjà-vu, sono approdate a Istanbul le merci delle Repubbliche asiatiche: caviale, tessuti uzbechi, e natasha è diventata una parola turca per dire prostituta.
Durante le ore calde potete calarvi nelle cisterne: farvi inghiottire da quella di Binbirdirek, la Cisterna dalle Mille e Una Colonna, o dallo Yerebatan Sarayi, il “Palazzo Sommerso”, l’immensa cisterna costruita da Costantino e ingrandita da Giustiniano, con le sue 336 colonne. (In quest’ultima riconoscerete l’ambientazione di una famosa scena di James Bond in Dalla Russia con amore; ma portate con voi piuttosto le descrizioni che delle due cisterne diedero, rispettivamente, Herman Melville e Théophile Gautier). Girato l’angolo, potete fare un bagno turco in un hamami a scelta tra i piccoli o grandi della zona, più o meno turistici ma sempre distensivi, aperti tutto il giorno e alcuni fino a tarda sera, anche alle famiglie.
Consultando l’elenco degli ospiti del Pera Palas, l’albergo costruito a Beyoğlu dalla Compagnia dei Wagons-lits come terminal dell’Orient-Express, in Meşrutiyet Caddesi troverete un po’ tutti gli scrittori del Novecento, da Ernest Hemingway a John Dos Passos, da Graham Greene a, naturalmente, Agatha Christie. Il mistero dei suoi giorni di assenza dalla camera 411, ancora inspiegato, ha preso posto tra le molte leggende letterarie aleggianti sulla Città delle Città.
La città scintillante d’oro e di colori che all’inizio del Novecento diventò improvvisamente grigia come uno schermo oscurato ha un forza irradiante, quasi radioattiva, che ricorda lo Stalker di Andrej Tarkovskij, fa vibrare la nostra coscienza collettiva, o forse la memoria rimossa della nostra civiltà. Perché con la fine della prima guerra mondiale era stato un evo intero, quello che potremo chiamare la belle époque, l’ancien régime o il mondo antico tout court, a sprofondare definitivamente per lasciare spazio al mondo nuovo, quello di Aldous Huxley, ma anche di George Orwell: per cedere il passo a quel Medio evo prossimo venturo, che oggi aleggia tra le ceneri tossiche delle Torri Gemelle.
Fin dalla seconda guerra mondiale si vedranno le conseguenze del frantumarsi di quell’intercapedine di tolleranza, mediazione tra civiltà, vocazione cosmopolita, che dall’impero romano Bisanzio aveva trasmesso a quell’islam. Senza l’impero ottomano gli attriti fra etnie, non frenati dall’Occidente, sono diventati, tra la fine del Ventesimo secolo e l’inizio del Ventunesimo, il massimo problema della nostra era. Istanbul è oggi dunque anche il simbolo della decadenza della modernità, delle contraddizioni fra civiltà, di quell’enigma che oggi è l’incontro-scontro fra Oriente e Occidente.