Il potere si addice a Penelope
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Penelope doveva nascere maschio. Nata invece femmina, e per giunta a Sparta, i genitori cercarono di annegarla: succedeva, e in alcune parti del mondo succede ancora. La salvò un gruppo di anatre, da cui, secondo alcuni mitografi, il nome (penelops, greco per l’anatra acquatica) che Icario e Policaste le diedero nel riaccoglierla, spaventati da quel messaggio divino affidato, come quasi sempre nell’antichità, al mondo animale. La Penelope con testa d’anatra di Alberto Savinio è, prima che una visione metafisica, una didascalia mitologica e filologica. Molto più della Penelope suora delle miniature dei codici del De mulieribus claris di Boccaccio, versione tra le più eloquenti di quell’icona di castità e pazienza che ha voluto scorgere in lei la tradizione. Una Penelope data in sposa a Odisseo polytropos, il multiforme, l’errante, che nel palazzo di Itaca ne aspetta per vent’anni il ritorno da Troia, tessendo e stessendo la sua tela pur di impedire ai pretendenti al trono, i Proci, di prendere il suo posto. Una Penelope inconsolabile e ferrea custode del focolare domestico, pudica antitesi della cugina e compagna d’infanzia Elena, della quale critica, in un discusso passaggio dell’Odissea, l’abbandono del marito Menelao e la fuga con l’amante Paride.
Ma se guardiamo bene questa figura di donna che sta all’origine della definizione di fedeltà coniugale e sottomissione femminile agli impegni prioritari quanto spesso ondivaghi del maschio, se leggiamo il mito nella realtà dei fatti che narra e non nella loro interpretazione tradizionale, lo specchio si rovescia. Penelope periphron, razionale, secondo la formula omerica che ritorna decine e decine di volte nell’Odissea, non è meno polytropos né più casta dell’inquieto marito, ed è altrettanto dotata di metis, di astuzia. Per vent’anni riesce, donna e sola, a governare la sua isola, resistendo alle rivendicazioni di più di cento scalpitanti giovani nobili.
Questa figura proiettata sugli albori della letteratura occidentale è forse memoria, secondo alcuni, di un antico matriarcato, ultimo riflesso del tramonto di un potere istituzionale femminile custodito, nella sposa di Odisseo, da Atena, signora dell’arte della tessitura oltreché dea della ragione e in quanto tale protettrice della forza razionale e pacifica insita nella donna. Dai Proci stessi onorata nella sua autorità e scaltrezza, chiamata basilissa, Penelope è regina non solo del suo regno ma anche del suo corpo. E non nel segno della castità, se già un mitografo autorevole come Apollodoro dà per scontato che Antinoo, il capo dei pretendenti nonché il primo ucciso da Ulisse al suo ritorno, sia il suo amante. Cui tuttavia, al di là del talamo, Penelope non concede alcun accesso a quella stanza del potere, che tiene e conserva tutta per sé. In questo senso va letta la sua critica di Elena, che segue l’irrazionale impulso amoroso e ne viene travolta senza calcolarne l’esito, funesto per i troiani e per gli achei ma anche per se stessa, che alla fine dovrà tornare in patria, ancora più sottomessa a un invecchiato e rancoroso Menelao.
Del resto l’aggettivo “fedele” non è mai attribuito a Penelope da Omero, molto spesso, invece, dai suoi commentatori antichi e moderni. E’ in realtà solo in età romana, con le Fabulae di Igino, che Penelope viene inserita dai manuali mitografici nel novero delle donne fedeli, modelli da imitare per le matrone latine, cui si rivolge anche Ovidio nelle Heroides, raffigurandola, forse non senza ironia, nel suo struggersi per l’eccessivo viaggiare del consorte.
Altrettanto evidente il suo disappunto per il ritorno di lui. E’ l’unica a non volerlo riconoscere, ostinatamente e quasi rabbiosamente negando ogni evidenza recata dal figlio Telemaco, che la accusa di “durezza di cuore”, dalla nutrice Euriclea, da Odisseo stesso; opponendosi all’invasione tardiva di quella stanza tutta per sé che una sapiente arte della tessitura, materiale e metaforica, le aveva per vent’anni assegnato e garantito, e alla quale sembra non voglia rinunciare. E non lo farà, alla fine, se confidiamo, con Dante, che Ulisse, una volta tornato, non tarderà a ripartire da un’Itaca che, se diamo retta a Kavafis, non è mai stata veramente la sua mèta, e si lancerà nel folle volo oltre le colonne d’Ercole e solo lì e allora, e non in un focolare domestico, concluderà il suo per definizione interminabile viaggio all’inseguimento della conoscenza.
Questo non toglie che l’Odissea sia anche, se non soprattutto, una storia d’amore. L’autonomia di Penelope, la sua parità rispetto al marito, non significa che l’amore coniugale che gli dèi hanno concesso alla coppia più cara alla dea della ragione non sia forse il più grande dell’intero ciclo troiano, così grande da non potere essere agito, da nessuna delle due parti, senza l’ostacolo della distanza, completamente vissuto senza il dolore dell’assenza.
Ma un mito è un mito e in quanto tale non può essere né spiegato né narrato in un solo modo, o lo si demitizza, lo si priva della vitalità e incessante attualità che lo definisce e che risiede proprio nelle infinite letture che permette. Il mito è un prisma di cui ogni individuo o epoca sceglie la faccia in cui riflettersi, è una ghianda chiusa, che, dove gettata, dà germogli diversi. Per questo si rinnova sempre ma per questo è anche sempre ambiguo, apparentemente contraddittorio, come lo è la psiche umana, e per questo sempre si evolve e si adegua all’ esperienza umana, biografica e storica. E’ al secolo delle donne che la versione narrata da Omero e l’esegesi dei greci antichi ha mostrato nella razionale, emancipata Penelope l’esatto rovescio della femme fatale sua cugina, così come il peplo di Elena, omaggio al mondo maschile ricamato con le scene delle imprese degli achei viste dal palazzo di Priamo, è apparso antitesi della tela di Penelope, atto di liberazione femminile dalla sopraffazione dei maschi. E’ nel Novecento, che Penelope è diventata un vero e proprio simbolo di emancipazione di genere. Inaugurata negli anni Venti dalla sfrenata Penelope-Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce, la rilettura del mito della sposa di Odisseo, della sua personalità e psicologia, del suo ruolo nell’Odissea e nell’immaginario collettivo attraversa il ventesimo secolo e la letteratura femminista per trovare all’inizio del ventunesimo la più ironica e popolare espressione nel Canto di Penelope di Margaret Atwood: una Penelopiade dove la protagonista, cui viene finalmente accordata dopo millenni la parola, spiega molte cose, e tra queste che il solo modo per sopravvivere nel mondo dei maschi è anzitutto nascondere la propria intelligenza.
“Ma lei di giorno tesseva il grande telo / e di notte, con le fiaccole accanto, lo disfaceva” (Odissea, II, 104-105). Il genere femminile ha tessuto e stessuto la sua tela per millenni, in attesa non di riconoscere e legittimare (il proprio sposo) ma di essere riconosciuto e legittimato (nella propria identità). Forse Penelope non smetterà di tessere, ma la sua attesa è finita.