Do you speak Latino?
Veni, vidi, vici. Il boom dell'idioma dei Cesari
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Latino. Vizia la scrittura. Utile solo per leggere le iscrizioni delle fontane pubbliche. Diffidare delle citazioni in latino», scriveva Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni. Già lingua morta, il latino sembrava seppellito definitivamente da quando la vulgata culturale degli anni Settanta l’aveva denunciato non solo come reazionario e borghese, ma come specificamente fascista.
Invece, ora che non lo sa più nessuno e soprattutto nessuno lo impone, il latino sta diventando trendy. Ora che neanche i politici lo usano più senza storpiarlo, che i gesuiti non lo studiano più, che dopo quasi mezzo secolo di messa in italiano Jovanotti si è sostituito al gregoriano, il latino è tornato di culto. Un culto laico però, alternativo e quasi trasgressivo. È tornato come risposta alla banalità dell'inglese, quello sì ormai obbligatorio ovunque. Come bandiera, a volte, di antiamericanismo. Come recupero dei valori della vecchia Europa. Come anticonformismo, come capriccio vintage, controcorrente e snob.
Si è prodotto cosi, nel Club del Latino, un terremoto al vertice. Gli affiliati della vecchia guardia - Quirino Principe e Guido Ceronetti, Gerardo Bianco e Mario Capanna - sono stati soppiantati da nuovi e ancora meno prevedibili soci. Luis Sepulveda, per esempio. L’autore della Storia di una gabbianello e del gatto che le insegnò a volare ha sentito un'acuta esigenza di imparare la lingua dell'Eneide: «Ho l'impressione che altrimenti mi sfugga un mondo». E ha arruolato per insegnargliela un vecchio curato spagnolo. «Voglio padroneggiare questa lingua per leggere anzitutto Virgilio», ha dichiarato ai giornali.
«È la lingua più sintetica», dice il pittore neosurrealista Luigi Serafini (autore del famoso Codex Seraphinianus), per gli amici Aloysius Seraphicus, che il latino lo usa regolarmente per gli Sms. «Dal latino la lingua parte e al latino ritorna nella brevitas dei cellulari, dove la scrittura è trionfo dell’ellissi. Per non parlare delle abbreviazioni, simili solo a quelle dell’epigrafia. SMS non è forse un acronimo come SPQR o come SPA ("Salus Per Aquam”)?». E ha una teoria: «I dizionari automatici dei telefonini finiranno per scrivere latino. Gli articoli, che già abbiamo cominciato a omettere, si aboliranno del tutto. Pian piano cominceranno a comparire i casi. Il primo sarà l'ablativo assoluto. Poi il dativo, il genitivo, e si finirà per tornare “back to the future».
In verità una vena di latino underground stava serpeggiando da tempo come un fiume carsico, affiorando nei punti più impensati. In Europa le avanguardie non lo avevano mai dismesso. C’era stato nel 76 il caso di Derek Jarman, con il film Sebostiane, manifesto gay parlato in un latino classico e maledetto. E quello del dandy dell’avanguardia francese, Philippe Sollers, il fondatore di Tel Quel, che aveva scelto il suo pseudonimo dal latino «sollers», «tutto arte».
Sollers e Jarman si muovevano a loro volta sulle tracce di un'élite intellettuale europea per la quale il latino era sempre stato lingua franca. Quando Evelyn Waugh, inviato in Abissinia, ebbe in mano il suo più grande scoop, per schivare la censura inviò al Daily Mail un telegramma in latino. Negli anni Quaranta e Cinquanta i giornalisti che viaggiavano oltre cortina comunicavano in latino con i colleghi dell’Est. Marguerite Yourcenar decorava con frasi latine i suoi abatjour. Ernst Junger, quando ricevette il Premio Tevere, pronunciò direttamente in latino il suo discorso.
In America il fenomeno è più recente. Potremmo datare il suo inizio ufficiale a un paio d’anni fa, quando su un quotidiano apparve lo strano annuncio di due ricchi coniugi della West Coast. Cercavano un antichista da assumere con invidiabile stipendio per insegnare il latino a tutti i membri della famiglia. Da quel momento in California il latino è diventato un must come lo voga e lo health food.
E infatti vive in California e fa celebrare quotidianamente messe latine nella cappella privata della sua villa il profeta del latino cinematografico: Mel Gibson, ex Bravehart, ex Patriot, considerato «il massimo esponente del catto-starsystem hollywoodiano». A Cinecittà Mel Gibson sta girando in latino e senza sottotitoli il suo discusso nuovo film Passion, di cui è co-sceneggiatore e produttore e in cui ha investito 25 milioni di dollari. «È una scommessa. I distributori americani pensano che io sia pazzo», ha detto. «Ma forse invece sono un genio».
Il terreno era stato preparato già dalla rinascita dei «peplum» nel mondo anglosassone: dal Gladiatore a Titus, agli sceneggiati televisivi. Secondo le statistiche delle università statunitensi e le chatline dei professori, i nuovi «peplum» latini hanno fatto aumentare le iscrizioni ai corsi di antichistica nei campus e le richieste di grammatiche latine nelle librerie americane.
È un romantico professore di latino («candida me capit, capit me flava puella») l'eroe del Cuore altrove di Pupi Avati, che da qualche anno si è rimesso a studiarlo «per capire i testi medievali». Mentre il Vaticano pubblica la nuova edizione del Lexicon recentis latinitatis, gremito di lemmi come topless, scooter e hot pants.
La musica classica contemporanea tocca del resto l'apice del suo successo popolare, a metà degli anni Trenta, con i Carmina Burana di Carl Orff («O Fortuna velut luna statu variabilis»). Il quale si rifaceva a Stravinskij, che dieci anni prima aveva fatto tradurre in latino da Jean Daniélou il libretto dell'Oedipus Rex scritto da Cocteau («Oedipus, Oedipus, adest pestis»). Ma anche il rock ha i suoi fasti latini. A metà degli anni Settanta Cat Stevens cantava in latino una delle sue più celebri ballate: «O Charitas, o Charitas, nobis semper sit amor». Oggi a farlo sono Madonna e Celine Dion. Per non parlare di Mina, che nel 2000 ha inciso Dalla terra, un album di canti latini, tra i quali un virtuosistico Veni creator spiritus con il coro della Schola Gregoriana del Duomo di Cremona. Dopo il flop del documento pontificio sulla musica sacra, Mina ha lanciato dalla prima pagina della Stampa un irato appello alla conservazione e diffusione del canto liturgico in lingua latina.
Sulla via maestra del revival del latino troviamo Harry Potter, con i suoi «Animagi» e «Dententores», le sue «Ferulae», il suo «Veritaserum». Con le sue parole d’ordine: «Caput Draconis», «Fortuna Maior». Con i suoi motti: «Draco dormiens num quam titillandus». Con le sue maledizioni: «Imperius», «Petri ficus Totalus». Con i suoi incantesimi: «Confundus», «Densau geo», «Engorgio», «Expelliar mus», «Mobiliarbus», «Scrpen sortia».
Con Harry Potter il latino, eversione ed evasione allo stato puro, ha contagiato per primi i più digiuni di latino, i figli dei figli del Sessantotto, i ragazzi. A riprova che la lingua di Cicerone e Girolamo piace tanto più quanto meno evoca antiche discipline. Già da tempo, del resto, esistono fumetti in latino, ottimamente tradotti e utilmente accentati come una volta i libri da messa. Ci sono Michael Mùsculus (Topolino) e Donàldus Ànas (Paperino), Popéius (Braccio di Ferro) e Titinum (Tintin), Snùpius e Càrolus Brùnus e gli altri personaggi di quel vero monumento che è Io Schultz Lingua Latina. Tutti pubblicati dalla ELI, una piccola casa editrice che dalla leopardiana Recanati li distribuisce insieme a due riviste per teenager, luvenes e Aduléscens, in tutto il mondo: dalla Finlandia alla Spagna, dal Belgio alla Turchia, dai Paesi dell'ex blocco sovietico fino all’Australia e a Taiwan.
Neanche il mondo dei giochi è indenne dalla latinomania. Su Internet è in corso un forum sul problema se il Lego, il gioco inventato in Danimarca negli anni Trenta, derivi il suo nome dall’espressione danese «Leg Godt» («giocare bene») o non piuttosto dal verbo latino «lego» («raccogliere»). In Rete, del resto, sono recentemente fiorite un'infinità di chat in latino, per non parlare dei siti didattici, dei manuali di conversazione latina e di attualizzazione politica degli storici dell'antica Roma. Si trovano anche strani appelli. Uno è stato lanciato da un consumatore di funghi allucinogeni, che durante un trip si è trovato a parlare latino senza riuscire a capire cosa avesse detto (Speaking Latin on Shrooms? http://www.hipfo rums.com/thread22130187&subid=45.html).
A proposito di Internet, anche qui il latino batte l’inglese. Basti pensare alla storia della cosiddetta chiocciola. l’@. Secondo le ricerche dello storico Giorgio Stabile deriverebbe dai codici mercantili del Cinquecento, dove il segno è stato avvistato a indicare un'unità di peso e di capacità equivalente all’ «anfora». Di lì sarebbe approdato sulle tastiere delle macchine da scrivere del Novecento e usato a significare «at a price of». Ma chi vuol essere davvero filologico la chiocciola del web dovrebbe chiamarla «et» non «at». Perché ben prima di essere inglese era latina. Perchè più anticamente, e più frequentemente, il segno @ stava così come le altre due abbreviature paleografiche oggi adibite a «e» commerciale semplicemente per «et». Ossia per la congiunzione «e» latina, infinite volte compendiata con questo segno dai copisti dei manoscritti, quelli del Nome della Rosa di Umberto Eco. Il cui cognome è anch’esso un compendio latino, per la precisione un acronimo: sta per «Ex Coelis Oblatus», espressione impiegata dai gesuiti del Seicento a designare i trovatelli.