Ovidio, un anarchico nel mondo estremo
Esaltato da Brodskij, il poeta latino è al centro di un'appassionata riscoperta editoriale
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Dalla torre laminata d'acciaio che domina la pièce teatrale di Josif Brodskij, Marmi, ora uscita da Adelphi, il protagonista Tullio butta giù l'uno dopo l'altro, attraverso un interminabile condotto della spazzatura, busti marmorei di poeti latini. «I classici» sussurra tra i fumi dell'alcol, «le teste mozze della civiltà...». Se ne salvano solo due: Ovidio e Orazio. Se Orazio è stato celebrato nel nostro secolo dagli Horatians di Wystan Hugh Auden («In quali regni la fantasia può trasferire, Fiacco, la tua stirpe, voi che vi raggrinzite dinanzi alla folla e ai rumori del traffico?»), oggi un'improvvisa raffica editoriale sta accompagnando Ovidio nella modernità. Interrogato su quale verso del passato avrebbe voluto avere scritto, Brodskij ne ha indicato senza esitazione uno di Ovidio: Nec sine te nec cum te vivere possum, «non posso vivere né con te né senza di te», aporia applicabile alla fuga del dissidente dalla patria comunista. Nei suoi versi - i poeti, si sa, soffrono di lieve mitomania - si specchia un Ovidio alla rovescia, cacciato dai ghiacci della Scizia verso i marmi di Roma. Al poeta perseguitato da Augusto l'urto col potere fruttò l'esilio nella remota Tomi, la romena Costanza, «agli estremi confini del mondo conosciuto, su un Mar Nero turchese che a volte trascolora in biancori di ghiaccio», come scrive Christoph Ransmayr nel Mondo estremo (Leonardo), il romanzo che ha anticipato il ritorno di Ovidio nel mondo tedesco, nell'anno della caduta del Muro. Nella Tomi descritta da Ransmayr i versi delle Metamorfosi incompiute sbiadiscono tra erbe incolte, incisi su colonne di pietra coperte di scie di lumache. Nel Tristia, il libro scritto laggiù e ora curato da Nicola Gardini negli Oscar Mondadori, l'esilio stesso è presentato da Ovidio come una metamorfosi; il rovesciarsi delle proprie fortune presso il principe, il proprio mutamento fisico sono una malefica appendice al poema. Si ritrovò fra genti incomprensibili, nella morsa di un Nord-Est che descrive con l'orrore di Poe: Ovidio, un anarchico nel mondo estremo «Ho visto il grande mare fermarsi nel ghiaccio e una lastra viscida comprimere le acque, le poppe chiuse nel gelo, piantate nel marmo. Ho visto i pesci fermarsi catturati dal ghiaccio, ma una parte di loro restava ancora viva». Come un pesce bloccato nei ghiacci, Ovidio descrive gli spasimi dell'ansia per la paralisi dell'unico elemento vitale, la scrittura. Per salvarsi cercò perfino, inutilmente, d'imparare la lingua degli esecrati Geti. La claustrofobia, la nevrosi, l'insonnia producono versi di nitida cupezza: «Da quando sono nel Ponto una fiacca perenne mi insidia le membra, l'insonnia mi assedia. La pelle ricopre appena le ossa, la bocca odia il cibo, si stinge in un colore di foglie d'autunno il mio corpo. La mente non va meglio: fissa come un oggetto visibile mi sta davanti agli occhi, chiara da leggere, l'immagine del fallimento». E' uno dei paradossi della storia della letteratura che il potere di ben due imperatori consecutivi, Augusto e Tiberio, abbia dimenticato in un luogo dove nessuno parlava latino proprio il poeta che ebbe la massima confidenza con quella lingua. A questa padronanza totale della penna si deve la sua sopravvivenza fino ad un entusiasta secolo dei Lumi, che travisando un po' l'antico, vi riconobbe il proprio ideale libertino: il catalogo delle dame corteggiate nei suoi scritti, tra corse di cavalli e spettacoli, è più dettagliato di quello di Da Ponte nel Don Giovanni di Mozart.
Ovidio aveva una giovane amante, sposata: bene, emancipata e libertina, una donna misteriosa di cui scrisse sotto falso nome negli Amores, ora tradotti da Gabriella Leto per la collana di poesia Einaudi. Con la stessa disinvoltura quest'agiata signora romana bruciava sotto le tinture i sottili capelli ramati, «simili al filo che sciorina il ragno quando tesse»; abortiva, rischiando la vita, il figlio del poeta, provocando con ciò le sue eleganti proteste in un'elegia; ai banchetti carezzava il marito sotto il triclinio, per poi lasciarlo semiaddormentato e terminare la serata con l'ingelosito amante. Non sappiamo se Corinna sia realmente esistita. Di certo Ovidio non racconta un amore, come Catullo o Properzio, ma molti, volubili, metamorfici «amori», anche per una sola donna. L'amore di scuola epicurea esclude il dolore e persegue il piacere. L'Ars amatoria di Ovidio è stata recentemente pubblicata dalla Fondazione Lorenzo Valla nell'edizione critica di Emilio Pianezzola. Fin nel titolo quest'ironico e scandaloso manuale di trasgressione sociale e amorosa fa la parodia all'ars oratoria, dedicando la prima sezione all'inventio. «Io son nato per studiare, per comprendere, per apprendere: questo significa che io son nato per possedere. Fra tutte le creature della terra, la donna è quella che noi possiamo più profondamente apprendere», scriveva, ispirandosi, D'Annunzio. «Non siete andati a letto insieme per obbligo di legge: per voi ha vigore di legge solo Amore», scrive Ovidio, rivelando la superiorità dell'adulterio rispetto al vincolo del matrimonio. E' una prospettiva rivoluzionaria, eversiva della morale tradizionale e della giurisprudenza latina, ma in particolare della Lex Julia de adulteriis. E' un'accezione dell'amore come anarchia. Ma non è certo Ovidio, è Augusto ad avere politicizzato gli amores dei cittadini romani, con un regime che per la prima volta nella storia di Roma entrava nelle camere da letto. Augusto non vide lo scherzo. Bastò «un distratto cenno della mano dell'imperatore» per far tacere la voce del poeta dandy, troppo poco militante in un'età di poeti epici e ideologici come Virgilio. Ma l'esametro non si fa amare dal libertino: «suona come una latta vuota», diceva Des Esseints. E' il verso piano delle certezze e delle unanimità. Ovidio teorizza il ritmo diseguale, il diverso solfeggio del distico. E' stato Cupido, il sovvertitore, a sottrarre un piede a ogni coppia di versi. Nella sua prosodia asimmetrica il distico elegiaco simboleggia l'ironia, l'irregolarità, l'incertezza. Ma quanta opposizione si cela davvero, come crede Brodskij, nella poesia di Ovidio? Accertarlo è il compito che si è dato Alessandro Barchiesi nel Poeta e il principe (Laterza), uno studio dei Fasti di Ovidio come luogo di conflitto fra poetica e politica. Dei Fasti, grandi testimoni dell'idea che Ovidio ebbe dell'impero, è fra l'altro in preparazione per la Fondazione Valla l'edizione e la traduzione completa a cura di Augusto Fraschetti. Prima di morire Ovidio si ostinò ad affermare di non avere commesso alcun crimine: nullum crimen in Carmine. Ma era la poesia stessa il delitto: il Carmen era il crimen, nella sua libertà e incontrollabilità. La modernità e insieme la colpa di Ovidio, ludico e laico, antiromantico, non a caso trascurato dall'Ottocento, risiedono nell'anarchismo politico e amoroso, nel suo essere in ambedue le sfere sentitamente inafferrabile.