Cantami, o India
L'epica del Mahabharata, al teatro e al cinema con Peter Brook
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Iveda, il Tripitaka, il Mahabharata armonizzano con l’Himalaya, il Gange, l’elefante, il nyagrodha. il nelumbio colossale: tutto nell'lndia tende ad assumere forme gigantesche, come scrivevano all'inizio degli Anni 30 Vittore Pisani e Carlo Formichi pubblicando il Mahabharata nella versione in ottava rima del loro maestro torinese Michele Kerbaker, che ancora ne resta la più ampia traduzione italiana.
Composto di duecentododicimila versi, sette volto e mezzo l’Iliade e l'Odissea insieme, e di infiniti strati e intarsi dove intermezzi lirici o digressioni dottrinali dilatano o rompono la trama epica, è questo il maggiore dei poemi sanscriti protoclassici e il più lungo della storia della letteratura. Nel 1978 il romanziere indiano R. K. Narayan, nel 1985 lo sceneggiatore Jean Claude Carrière e il regista teatrale Peter Brook hanno tentato di sintetizzarlo, con modalità e spessore certo assai diversi.
Iniziato nel secolo di Socrate, elaborato e accresciuto durante e dopo la conquista greca di Alessandro, il suo attuale assetto si ritiene risalga a un brahmino (tradizionalmente il santo Vyasa, un personaggio della narrazione) operante nel III o IV d.C., quando già in India viaggiavano i predicatori cristiani e presto sarebbero giunti i monaci di Bisanzio.
Di questa lunga vicenda storica, oltre a riflettere in qualche modo i fatti, il poema contempera la multiformità dottrinale, riunendo la decadente tradizione brahmanica ai fermenti del nascente induismo, i valori guerrieri del sistema castale a un'etica universale spiritualista.
Il Re Cieco e il Re Pallido
Il Mahabharata o Grande Poema dei Bharata, uno dei più antichi clan indo-ariani, narra la lotta dinastica che oppone sino al reciproco massacro i cento Kaurava, figli del Re Cieco Dhrtarastra, ai loro cinque cugini Pandava, gli orfani del Re Pallido Pandu. Questi ò morto dolcemente «sopraffatto dallo spirito dell'ora e dall'aura della primavera»; lanciando un urlo come di sciacallo è nato invece Duryodhana, il primogenito di Dhrtarastra.
Nel dualismo induista la guerra dei Pandava contro i Kaurava è quello del bene contro il male, ma anche dell'individuo contro il destino, dell’anima contrapposta al corpo, del singolo contrapposto al tutto. Dal dubbio è continuamente divorato il Re Cieco, simile ancor più all'Edipo di Sofocle che al Priamo di Omero. In un continuo conflitto dello volontà è consumata l’esistenza del primogenito panduide Yudhisthira, il Risoluto, che cerca di rivoltarsi alla legge della natura mediante l’esercizio dell'ascesi e l'abbandono della vita sociale. Ma i protagonisti del Mahabharata non riescono «a smussare la lama tagliente del fato». I viventi che l'angoscia di Arjuna contempla schierati dinanzi a sé come gli eserciti di Serse «sono già trafitti, condannati dal loro karman». In un orrendo frastuono le insidie del male - i vasi di terraglia aggrovigliati di serpi velenose, lo enormi siringhe di melassa - si contrappongono alle armi del bene, l’arco miracoloso di Arjuna e il disco sterminatore di Krsna, vettovaglie, scorte di foraggio, tende, medicinali, un seguito di chirurghi, ma anche i magici missili astra e un'arma segreta che si direbbe nucleare: «Scagliata contro un nemico a te inferiore, potrebbe bruciare l'universo intero».
Ma non è prerogativa del male distinguersi totalmente dal bene. Nella Battaglia dei Diciotto Giorni norme logistiche e figure tattiche, il Pesce e l'Airone, l'Aquila, la Mezzaluna, il Loto, ricalcano quegli stessi passi di danza in cui i soldati alla sera si cimentano percuotendo il suolo impregnato di sangue. Neppure il messaggio finale - il dolore, l'orrore della vittoria è inequivocabile, anzi viene contraddetto dalla rivelazione che insedierà Yudhisthira, riluttante, sul trono del mondo. Secondo quanto Krsna insogna a Arjuna nella Bhagavadgita o Canto del Beato, nel sesto libro del poema originale, la cognizione del dolore universale, inducendo nel saggio il distacco, deve tuttavia sospingerlo al dovere vitale: solo l’azione compiuta con indifferenza lo libererà dal ciclo delle rinascite o samsara. «Il gatto divora il sorcio, il cane divora il gatto, il cane è sbranato dal leopardo e tutti gli esseri viventi vengono divorati dalla morte. Perfino gli asceti non possono mantenersi in vita senza uccidere delle creature. Nell’acqua, sulla terra, nel mondo vegetale vi sono in gran numero vite minute e invisibili, che nondimeno vengono uccise quando l’asceta si nutre».
Da Dione Crisostomo a Schopenhauer, la Bhaguvadgita è sempre stata la parte più amata del Mahabharata, insieme a quelle efflorescenze favolistiche - le storie di Sskuntala, di Savitri, di Nala e Damayanti - che hanno goduto d'una propria fortuna letteraria e di traduzioni autonome. Carrière o Brook, gli autori della riduzione teatrale del poema, pur eliminando in larga misura queste ultime e pur senza serbare il vero testo della Bhagavadgita, fanno di essa, programmaticamente, «il nucleo centrale e nascosto» della loro sceneggiatura.
La versione di Narayan invece, del tutto priva dell'una e delle altre, sembra quasi aver perduto il meglio, il nòcciolo filosofico più intenso, le perle poetiche più brillanti, per lasciare il posto a un cavo involucro epico, a «una spiga di grano senza chicchi» (p. 85).
Inoltre il rewriting, nella sua freddezza anglosassone, spesso appare meno efficace dei riassunti di Pisani e Formichi (se non delle inattuali ottave di Kerbaker) e suona a volte, più che straniante, incongruo: ciò anche a causa di una resa italiana che, per forza di cose traducendo una traduzione, non è nemmeno felicissima.
Tuttavia, come senti dire ai brahmini di Benares Alain Daniélou, uno degli studiosi intervistati nel volume di Vito Di Bernardi - Mahabharata. L’epica indiana e lo spettacolo di Peter Brook (Bulzoni, pp. 14t. L. 18.000) - «L’importante non è la Bhagavadgita, c'è qualcosa di molto più vasto».
Forse solo apparentemente ingenua, la scelta dello scrittore indiano mira a anteporre al contenuto poetico la forma, ai tratti pittoreschi la «sublime» struttura. Della forma epica e della struttura mitica - le meno esotiche, le più universali - la sintesi romanzesca aiuta d'altronde a cogliere le linee portanti, ossia da un lato la simbologia, dall’altro le parentele, rispondenze e risonanze con l’epica occidentale.
La fuga dal Palazzo dello Gioia che si farà cenere, l'arte sotterranea, esoterica del minatore inversa a quella esteriore e ingannevole dell'architetto, la via mistica della purificazione che passa attraverso il voto brahminico, la professione intellettuale, l’ascesi: il tessuto allegorico dello prima parte del poema culmina nelle nozze dei Pandava con la Sapienza.
Draupadi «dagli occhi come petali di loto», la fanciulla «scaturita da un fuoco sacrificale» come Pallade Atena dal cranio di Zeus, si dà sposa a tutti i cinque fratelli - tratto di poliandria unico nel poema e inconsueto per l’India - e più volte dialogherà con Yudhisthira («Mio signore, ogni creatura deve agire secondo ragione...»); spesso troverò alleanza in Krsna. Ma mentre gli eroi-filosofi si spalmano di pasta di sandalo e s'inebriano di vini e di droghe, il male s’insinua nel bene con la logica di Mefistofele.
Una partita, i riquadri della scacchiera, il candido avorio dei dadi, il loro ticchettio: «Chi conosce i suoi dadi infonde loro la vita, ed essi rispondono ai suoi ordini. Come puoi parlare d'inganno? Il male sta nella puntata»; e d'altro lato «declinare l'invito a prender parte a un gioco è contrario al codice degli ksatriya».
E' inevitabile la sconfitta, l'umiliazione dei prìncipi, la punizione dei saggi, secondo la tipologia indoeuropea del recapro espiatorio o quella semitica di Giobbe. Ma qui «il cieco perdono non è superiore a una ragionata collerra», e la collera del guerriero ksatriya, teorizzata da Draupadi e Krsna, non è forse il corrispettivo hindu dell'ira di Achille?
Il tallone di Arjuna
Come Achille a Sciro, alla corte di Virata l'eroe Arjuna si traveste da donna, e con Achille deve identificarsi il suo maestro e modello, Krsna re di Dvaraka, il cui unico punto vulnerabile è il tallone. Nella premonizione data ai genitori, Duryodhana ricorda Paride; Vidura Cassandra. La gara dell'arco allo svayamvara di Draupadi ricorda quella di Ulisse contro i Proci, e infatti la tela di Penelope si ritrova nell’infinita sari di Draupadi, che srotolata non la denuda. Gli epiteti di Krsna, il Fulvo (Hari), il Chiomato, il Tormentatore di uomini, ricalcano quelli di Apollo.
Ricorda Dumézil nel libro di Di Bernardi: «Da un centinaio d'anni l'umanesimo è esploso, non vi sono più solo i greci e i latini». Come in un caleidoscopio l’epica indiana restituisce frammentati o sconvolti i riflessi del ciclo epico troiano e tebano.
Il raksasa ucciso da Bhima richiama il Minotauro, gli enigmi che lo Yaksa del Logo pone a Yudhisthira sono quelli di Edipo e della Sfinge: «Qual è la cosa più stupefacente del mondo?», «Giorno dopo giorno, ora dopo ora, gli uomini muoiono e i loro cadaveri vengono portati via. I vivi osservano, eppure non pensano che un giorno o l'altro anch'essi moriranno. Credono invece che vivranno per sempre. E’ questa la cosa più stupefacente del mondo». Al comune repertorio gnomico dell’ellenismo e dell'ebraismo riportano le affermazioni sulla caducità della vita («Noi siamo come spuma sull'acqua del fiume...»), che a volte evocano la visione pessimistica della divinità propria di alcuni libri biblici («Siamo come festuche in balìa di un vento impetuoso. Il possente Iddio alimenta illusioni o induce ogni creatura a distruggere i propri simili. L’Altissimo ne gode come un bambino che si diverta a plasmare o a distruggere la sua bambola di creta».Affidato in una cesta al fiume, Karna richiamo l'archetipo del fanciullo divino, lo stesso di Mosè. E dal raffronto tra Cristo e Krsna, ipòstasi del dio supremo e rappresentante dell’amore divino per l'anima umana nonché ottava incarnazione di Visnu, il dogma dell'incarnazione cristiana e la dottrina yoga della grazia probabilmente traggono luce reciproca.