Cesare, l'illusione della dittatura democratica
Le imprese e il mito di un “uomo del destino” emerso da una crisi politica che ricorda quella dei nostri giorni
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L’impasse del parlamentarismo, il degradarsi di ogni politica popolare in particolarismo settario e in demagogia, il costume clientelare che corrompe le plebi, tanto che si esita a stabilire quale ‘popolo’ i populares rappresentino più: è in realtà la democrazia in difficoltà l’elemento cruciale in quelle figure di “uomini del destino” come Napoleone o Cesare, che da secoli esercitano su masse di persone ragionevoli un’attrazione implacabile, irragionevole e fatale, spesso indipendente dalla parte politica.
Un’attrazione riaccesa oggi dalla mostra su Giulio Cesare che sta per aprirsi a Roma con il contributo di grandi studiosi, tra i quali il massimo esperto contemporaneo in materia, Luciano Canfora. Accanto alla storia dell’uomo e delle sue imprese, il percorso espositivo ricostruirà il mito o “culto” di Cesare lungo i dieci secoli che separano l’impero carolingio dal cinema novecentesco, e in cui il rapporto con Napoleone è vitale e fa da leitmotiv anche visivo, a testimonianza della mai morta attualità di quell’antica vicenda.
Se possiamo attualizzare lo scenario della tarda repubblica romana in quello della Francia postrivoluzionaria, non è difficile neppure proiettarlo sugli eventi della nostra attualità politica, sul declino delle classi di governo, sulla loro indifferenza al bene comune e delle generazioni future: “Non importava un fico”, come dice Leopardi, “il vantaggio degli altri, dei posteri eccetera, e pesavano il proprio utile, non più ardore, non grandezza d'animo, l'esempio de' maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà”.
In questo scenario politico nasce e cresce il rampollo di una potente dinastia democratica dotato di un’oratoria formidabile ma anche di una cultura ellenizzante e di un perentorio talento per la poesia, di una scrittura “nuda” ma anche, come la definì Cicerone, “piena di grazia”, questo seduttore di folle tormentato da sogni d’incesto e visioni di giovinetti, questo collezionista d’arte raffinato e barocco scenografo di trionfi, destinato a diventare dittatore.
Perché è indubbio che Cesare fu un dittatore, anche se, per citare il paradosso di Canfora, “democratico”. Su cui gli storici non si dividono solo in “provvidenzialisti entusiasti” — quelli che già a partire dalla propaganda augustea lo considerarono un semidivino fattore di storia — o in “pessimisti repubblicani”, razionalmente avversi al suo mito — gli illuministi critici, i liberali scettici, i marxisti indignati, da Ronald Syme a Bertold Brecht. Fra l’una e l’altra di queste trincee ideologiche trovano posto le visioni di menti complesse come Shakespeare, che nella tragedia di Cesare identificò il dramma stesso di ogni politica, o di studiosi smaliziati e avveduti come Mommsen, capace di scorgere in Cesare una “perfezione che lo storico incontra ogni mille anni e che non può tacere”.
Stando ai fatti, Cesare fu anzitutto l’interprete dell’insoddisfazione politica di un’intera generazione di democratici. Alla metà del I secolo a. C., l’età della cosiddetta rivoluzione romana, il ceto sociale alla base del partito popolare si stava deteriorando. L’aumento delle sacche di parassitismo era stato reso possibile dai privilegi ottenuti grazie a un armamentario legislativo che cominciava a apparire paralizzante ai capi più giovani della “sinistra”. Ciò che Cesare contestò, insieme alla riduzione della politica a gioco di schieramenti, fu il sistema stesso della tarda repubblica. Come il suo dichiarato imitatore Napoleone all’indomani della rivoluzione francese, Cesare capì il mutamento in atto e intuì i nuovi soggetti da chiamare in causa. Soprattutto, come Bonaparte ebbe la spregiudicatezza di cercare l’accordo con l’antagonista: il “tavolo” del triumvirato.
Il compromesso comporta concessioni forti all’avversario, come le demagogiche leggi agrarie per i veterani di Pompeo. Ma il programma di governo così negoziato dura dieci anni: abbastanza perché un cambiamento di costume possa cominciare.
Basta di per sé la mancanza di un'opposizione a far parlare di “regime”? Nel caso di Cesare, pur nella corruzione del sistema perdurano, nella sostanza, le libertà repubblicane. Finché non si arriva, però, alla dittatura. Ma allora il capopartito viene ucciso. E la rivoluzione diventa, nominalmente almeno, restaurazione, della res publica. Generando, questa volta davvero, la monarchia assoluta. “Non si arrivò a conservare e difendere” — ancora Leopardi — “quello che pur Bruto per un avanzo d'illusioni aveva fatto”.
“Siamo diventati troppo umani per non dover provare ripugnanza davanti ai trionfi di Cesare”, aveva scritto già Goethe, l’occhio rivolto all’imperatore dei francesi. Se al primo “imperatore filosofo” dei romani, Adriano, va attribuito il primo olocausto ebraico della storia, al primo dei cesari la storia consegna la macchia del primo genocidio: la guerra gallica.
L'entità del massacro causato da Cesare ammonta almeno a un milione di morti, se si includono nel conto — come fanno Plinio il Vecchio o Plutarco — le perdite causate dalla guerra civile. Qualunque valutazione si voglia dare di quell’“esperimento politico interclassista destinato a finire male” che la vicenda ciclica di Cesare incarna, e che può suscitare non banale simpatia in chi temperi con un qualche utopismo della volontà il perciò, pessimismo repubblicano della ragione, non possiamo oggi rinunciare alla ripugnanza di Goethe, tanto più dopo l’esperienza del secolo breve e i suoi insegnamenti ulteriori sull’intollerabilità delle derive di ogni cesarismo nella storia.
LA MOSTRA
La Venere Genitrice del Louvre, copia della statua della patrona della Gens Iulia posta da Cesare nel tempio che le eresse. Gli affreschi della favolosa Villa dei Papiri di Ercolano, il cui proprietario era forse proprio suo suocero, il padre della sfortunata Calpurnia. Gli amori di Cleopatra e Antonio, che finiranno nel sangue, meravigliosamente sbalzati al centro della patera argentea di Aquileia, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il condottiero gallico di Avignone, a rappresentare i più vinti tra i vinti dal Cesare bellicista e genocida: l’élite di quell’antica civiltà celtica che lo sterminio etnico degli anni 50 fece scomparire dalla storia dell’Europa. Per non parlare dei molti volti di lui, il dittatore, il più bello dei quali ci è restituito dal busto appartenuto a Federico II di Prussia: il “Cesare Verde” di Berlino, ritratto postumo di un Cesare già anziano, l’intelligenza del viso approfondita – contrariamente a quelli di tanti moderni cesari — dalle rughe del conflitto interiore. Sono solo alcune delle oltre 200 opere esposte nella mostra “Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito” che si inaugurerà a Roma la prossima settimana (Chiostro del Bramante, 23 ottobre 2008 – 3 maggio 2009).
La parte propriamente archeologica è affiancata da una ricca sezione dedicata alla fortuna del mito cesariano nell’arte dal Rinascimento a oggi, che comprende capolavori leggendari e difficili da vedere altrimenti: dal globo dell’obelisco di Sisto V, che la leggenda medievale identificava addirittura con l’urna cineraria di Cesare, alla Spada Borgia; dalla Cleopatra di Michelangelo, custodita nel caveau di Casa Buonarroti a Firenze, a quella, per la prima volta in Italia, di Rixen conservata al Musées des Augustins di Tolosa; dalla sensazionale tela di Rubens, conservata nel museo di Iasi in Romania, alle Idi di Marzo di Poynter, provenienti dalla City Art Gallery di Manchester, fino alle ricchissime vestigia iconografiche della fortuna cesariana in Francia nel primo e secondo impero. Una sezione specifica è dedicata alla letteratura su Cesare e un’altra al mito di Cesare nel cinema, con apposita saletta di proiezione e una mostra degli abiti di scena della Cleopatra di Mankiewicz.