Silvia Ronchey

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Recensioni

Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda

11/11/2017 Giorgio Montefoschi

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Il Corriere della Sera

Qual’è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa do­manda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «1161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la pa­tristica greca». Risposta provo­catoria, se vogliamo, tuttavia assolutamente comprensibile per una bizantinista che sa co­me in quelle pagine scritte nel­la solitudine abbacinante dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandria, non è testimoniata soltanto la gigan­tesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpretare e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vici­no Oriente. Del resto lei stessa — curiosa di tutto, ansiosa di confrontare le tradizioni con le tradizioni, la storia con la sto­ria, il pensiero con il pensiero, e naturalmente il passato con il presente — è una studiosa ir­requieta che non ama fermarsi nel suo orto.
Questo, da bizantinista qua­le è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mi­stici islamici, di incrociare Ge­sù e Buddha, Dioniso e Agosti­no, Ildegarda di Bingen e Cate­rina da Siena, Bisanzio e l’Occi­dente, le eresie e i vangeli gnostici, l'iconoclastia e Flo­renskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticare Elémire Zolla e Montale. E’ il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) — che giu­stamente, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto — ne è la manifestazione immediata e affascinante.
Trasportato dalla medesima irrequietezza e dalla medesi­ma curiosità di chi lo ha scrit­to, il lettore attraversa «la bel­lezza quasi intollerabile del Si­nai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sa­cralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazione tra umano e divino»; penetra nei sotterra­nei del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo im­portava dall'India vedica» per scoprire, insieme alle coinci­denze delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvivenza dell’ani­ma, ma nella resurrezione del­la carne; dalle mura di Costan­tinopoli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, con­templa la falce di luna che il 24 maggio 1453,5 notti prima che la città fosse conquistata dai turchi, apparve nell'aria «sen­za nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell'infrangersi improvviso delle leggi e delle abitudini che re­golano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, con­scio e inconscio, dualità e co­smo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificata di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il misti­co come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».
Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabile, non rappresentabile — eppure rappresentabile — fra l’uma­no e il divino, è il filo condut­tore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale som­mersa. Più che altrove, Silvia Ronchey Io approfondisce nel breve saggio contenuto nel vo­lume e intitolato A mia imma­gine, nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle ico­ne. Ogni rappresentazione del volto che voglia essere figura­tiva — dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey — è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensio­ne, ci avvicina all’enigma del­l'essere», insomma ci traspor­ta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardando­ci in quella fissità irreale, len­tamente ci fanno comprende­re come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alter­na all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come — vorrem­mo aggiungere — accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrive­re il suo volto.

 


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