Ipazia. La vera storia
Alcuni l’hanno incoronata come eroina protofemminista, altri come martire della libertà di pensiero. Alcuni l’hanno commemorata come agnello sacrificale dell’ultimo paganesimo, altri ancora come prima strega bruciata sul rogo dall’inquisizione ecclesiastica”. Nell’enumerare, approfondire e incrociare queste e altre interpretazioni della figura, della vita e della morte della filosofa Ipazia – assassinata nel Quinto secolo ad Alessandria d’Egitto dai monaci cristiani parabolani, su mandato del vescovo Cirillo – la bizantinista Silvia Ronchey sa di camminare su un terreno scivoloso. Un terreno su cui più volte, nei quindici secoli che ci separano da quella morte eccellente, sono fiorite tesi che hanno occultato, più che rivelato, il vero volto di Ipazia. La donna sapiente, casta, bella, coraggiosa, personaggio eminente della sua città, idolatrata dai discepoli e demonizzata da chi (soprattutto Cirillo) ne invidiava l’autorevolezza e il rango, è stata via via abbigliata di vesti improbabili che varie scuole di pensiero non hanno mai smesso di imbastirle addosso. Non è quindi un caso se, nel decidere di saldare con Ipazia un debito di verità, Silvia Ronchey dichiara, all’inizio di questa rigorosa e appassionante inchiesta, che cosa l’alessandrina non è mai stata: “Non una filosofa cinica, non una criptocristiana, non una scienziata perseguitata dalla chiesa per le sue scoperte astronomiche, non una protofemminista”. Lo storico fedele alla propria disciplina non è aiutato dal fatto che di Ipazia non ci resta nulla o quasi. Non conosciamo la sostanza del suo pensiero e le sue opere, se non per allusioni delle poche fonti a lei contemporanee (il suo discepolo, e poi vescovo, Sinesio, lo storico cristiano Socrate Scolastico) che ne elogiano il carisma irresistibile e la sapienza somma. Così come nulla sappiamo delle teorie astronomiche di colei che fu figlia del grande matematico Teone, e che si vorrebbe anticipatrice del sistema copernicano. Molti indizi, scrive Ronchey, ci portano però ad attribuirle un ruolo di figura sacrale, di iniziata circonfusa del grande prestigio sociale e politico che quello status ancora garantiva nell’Alessandria del Quinto secolo. Quel prestigio doveva provocare il “madornale e irrazionale accesso di frustrazione di Cirillo”, il quale vide in Ipazia un insopportabile ostacolo alla propria influenza sulla città. L’interesse e l’ammirazione quasi devozionale che ancora oggi la filosofa riesce a suscitare si radicano anche nell’orrore per la modalità della sua morte. Quella sì, tramandata nei più sanguinosi particolari, degni di un sacrificio arcaico. L’accento messo sul suo martirio, spiega Ronchey, farà addirittura trascolorare, con illusionistica metamorfosi, la figura di Ipazia in quella di santa Caterina d’Alessandria. Il momento storico che ha contenuto la vicenda di Ipazia fu, come pochi, carico di conflitti. Le sopravvivenze pagane mentre si consolida la statalizzazione del culto cristiano – la fine di un mondo e l’inizio di un altro, come si usa dire – rimandano al problema sempre attuale del limite tra poteri: Cesare e Cristo, stato e chiesa. A partire dalle testimonianze antiche, Silvia Ronchey mette in luce come le differenti versioni dell’assassinio di Ipazia rivelino opposti atteggiamenti rispetto a come interpretare, affermare o negare, quel limite. Se le fonti bizantine condannano l’assassinio di Ipazia (e arrivano a darle lo statuto di martire) è perché nella Seconda Roma al clero era preclusa ogni prerogativa politica. Se il mondo cattolico santificherà Cirillo, sarà per il motivo opposto. Anche per questo, “nello sfumare delle varie ottiche sull’antico assassinio di piazza e sul segreto personaggio femminile, a manifestarsi con chiarezza non è tanto la fine del paganesimo quanto la metamorfosi del cristianesimo”.